Gli incendiari del sud America

Fiamme in Sudamerica. Il continente sta bruciando come mai in precedenza. Nel 2024 sono già diventati cenere oltre 15 milioni di ettari di foreste tra Bolivia, Venezuela, Perù e soprattutto Brasile. Il 76 per cento degli incendi si è sviluppato proprio qui, nel Paese che dal primo gennaio del 2023 ha visto tornare alla presidenza Luiz Inácio Lula da Silva, invocato dai media occidentali come il grande salvatore dell’Amazzonia dopo i quattro anni di Jair Bolsonaro, definito «ecocida» dalla rivista scientifica Nature, da Greta Thunberg e da star hollywoodiane come Leonardo DiCaprio e Mark Ruffalo. E che Greenpeace gli aveva dedicato un rapporto, «Uomo pericoloso, affari pericolosi», che lo imputava responsabile di un aumento della deforestazione amazzonica del 75,6 per cento (usando dati raccolti dall’Istituto brasiliano di ricerche spaziali, Inpe).

L’attuale ministra dell’Ambiente di Lula, Marina Silva, aveva addirittura paragonato la politica ambientale di Bolsonaro e gli incendi nel polmone verde del pianeta durante il suo mandato, al genocidio degli ebrei da parte dei nazisti. Lo fece in un suo articolo pubblicato dal quotidiano spagnolo El País il 24 agosto 2019. Titolo inequivocabile: L’Olocausto dell’Amazzonia allarma la civiltà. Peccato solo che con lei a difendere le foreste, l’agosto del 2024 sia stato il peggior mese per numero di incendi degli ultimi 14 anni in Brasile: ben 68.635. Un aumento del 144 per cento rispetto allo stesso periodo del 2023. E settembre ha già superato il record di agosto con la cifra monstre di 75.051 alla data in cui scriviamo (25 settembre). Il mese peggiore dal 2007, quando il presidente era Lula e ministro dell’Ambiente e dei cambiamenti climatici era proprio Marina Silva.

Non va meglio nella Bolivia governata dal Movimento al socialismo, il Mas del presidente Luis Arce e del suo ex amico «cocalero» (presidente dei sindacati di produzione della coca) Evo Morales, oggi impegnati in una guerra senza esclusioni di colpi per la leadership a sinistra in vista delle presidenziali del prossimo anno. Tre mesi dopo i primi focolai di incendi registrati a fine maggio nella Chiquitanía, una foresta tropicale al confine con l’Amazzonia brasiliana ed il Chaco paraguaiano grande oltre metà dell’Italia, il fuoco in Bolivia ha già distrutto quattro milioni di ettari. Tre milioni nel solo dipartimento di Santa Cruz, la città più popolosa della Bolivia, con oltre 2,1 milioni di abitanti e la cui aria è irrespirabile. Per il sistema IQAir, che monitora l’inquinamento nelle grandi metropoli del mondo, Santa Cruz è stata la città con l’aria più cancerogena al mondo per quasi un mese, superata solo da San Paolo, a metà settembre, che per una settimana le ha sottratto il poco invidiabile primato. Entrambe hanno superato di oltre il doppio i livelli registrati in metropoli con una lunga storia di inquinamento come Nuova Delhi in India e Lahore in Pakistan.

Il Venezuela del dittatore bolivariano Nicolás Maduro, anche se nessuno ne parla essendo l’attenzione dei media concentrata sulla frode delle presidenziali del 28 luglio scorso, è il terzo Paese sudamericano a registrare più incendi quest’anno: 39.192 secondo il sistema satellitare dell’Istituto aerospaziale brasiliano (Inpe) che monitora la regione, pari al 10 per cento del numero totale di roghi in Sud America. Drammatica anche la situazione in Perù. Al punto che il Parlamento ha rifiutato alla presidente Dina Boluarte (per inciso: già a capo del marxista-leninista Perù Libre), di lasciare il suo ufficio per volare a New York e partecipare all’ultima Assemblea generale delle Nazioni Unite. Secondo le regole di quel Paese, infatti, un capo di Stato non può recarsi all’estero senza il permesso del potere legislativo. In quel momento le fiamme stavano divorando boschi millenari causando la morte di più di 20 persone, ma la Boluarte voleva comunque recarsi a Manhattan spiegando che le cose poteva gestirle «da remoto». Nessuno ci ha creduto. Dal canto suo, il presidente dell’Ecuador, Daniel Noboa, unico di centrodestra, è stato invece costretto a lasciare in fretta e furia la riunione annuale dell’Onu a causa di un’incendio doloso che, il 24 settembre scorso, ha divorato la parte settentrionale della capitale Quito.

Se il fuoco che sta distruggendo le foreste sudamericane è «nel 99 per cento dei casi causato dall’azione umana» (spesso gli incendi sono appiccati da chi vuole liberare terreno per coltivazioni e allevamenti), come spiegano gli osservatori scientifici, è paradossale che Lula abbia insinuato che i piromani sarebbero tutti supporter dell’ex presidente Bolsonaro. A detta del presidente è un complotto per indebolirlo politicamente prima della COP-30, la Conferenza sui cambiamenti climatici dell’Onu che si terrà nella città amazzonica di Belém, nel 2025. E proprio da questa città è bene riproporre un’immagine che vale più di tante parole: la foto del Summit dell’Amazzonia organizzato da Lula l’8 agosto 2023 con i capi di Stato che compongono l’Organizzazione del trattato di cooperazione dell’Amazzonia (Acto), con l’obiettivo di «salvare, conservare e proteggere» il polmone verde del mondo. Un anno dopo, nonostante le tante belle parole, i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Nel ritratto ufficiale c’è Gustavo Petro, il presidente della Colombia, ex guerrigliero marxista e già consigliere politico di Hugo Chávez. Con lui al potere il Paese ha conquistato il poco invidiabile record mondiale di leader ambientalisti uccisi negli ultimi 12 mesi, addirittura 79, seguito dal Brasile (25 attivisti ammazzati), Honduras e Messico (entrambi con 18 vittime). Anche qui tutte nazioni governate dalla sinistra.

Nella foto dell’Acto, poi, c’erano i già citati Luis Arce, presidente della Bolivia, e Dina Boluarte, del Perù. Per spiegare quell’inutile e paradossale Summit dell’Amazzonia aiuta quanto scritto a fine settembre dal quotidiano brasiliano Estado de São Paulo: «Lula da anni si vende al mondo come una sorta di elfo custode delle nostre foreste, dei nostri mari e dei nostri fiumi» e non gradisce «che si scriva che è stato un assoluto incompetente nell’affrontare gli incendi, soprattutto alla vigilia del vertice del G-20», in programma a Rio de Janeiro il prossimo 18 e 19 novembre. Un marketing ambientale che alla prova dei fatti si sta dimostrando un boomerang per il presidente del Brasile che all’Assemblea generale dell’Onu di fine settembre ha incentrato il suo intervento sul cambiamento climatico e sui soldi che i Paesi ricchi devono dare al suo per «salvare il pianeta», mentre la ministra dell’Ambiente Marina Silva ha parlato di «terrorismo climatico».

Va riconosciutoche l’aumento senza precedenti degli incendi dolosi in Brasile è favorito dalla peggiore siccità degli ultimi 44 anni, secondo il Centro per il monitoraggio e l’allarme dei disastri naturali, Cemaden, collegato al ministero della Scienza e della Tecnologia verde-oro. Con esso l’Enel ha firmato lo scorso 12 settembre un accordo di collaborazione per rafforzare la prevedibilità degli eventi climatici e i loro effetti sulle infrastrutture critiche, a cominciare dalle reti di distribuzione dell’energia. Ma questo non giustifica il greenwashing (quando la sostenibilità è usata come facciata per coprire attività inquinanti o, in alcuni casi, illegali) un rischio sempre più presente in Brasile, soprattutto nella recente corsa verso ciò che è ecologicamente corretto ben incarnata da Lula. Inoltre, bisognerebbe spiegare come mai dai cieli sudamericani siano spariti negli ultimi anni gli aerei Canadair, utilissimi per spegnere gli incendi, che Justin Trudeau aveva smesso di produrre appena arrivato alla presidenza del Canada nel 2015. Poi, bontà sua, ha cambiato idea, messo di fronte all’evidenza che servono per combattere la guerra contro le fiamme che stavano distruggendo anche le foreste canadesi.

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