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October 24 2015
Per analizzare correttamente le parole di Benjamin Netanyahu riguardo a Hitler, ai palestinesi e all’Olocausto, parole che hanno giustamente destato scandalo e sorpresa, bisogna prima di tutto, io credo, individuarne il senso (o, per essere più precisi, lo scopo).
Partiamo dall’escludere che il primo ministro israeliano volesse offrire, da cultore o appassionato, un contributo alla conoscenza della storia: ciò che ha sostenuto, ossia che Hitler abbia avuto l’idea di uccidere gli ebrei - anziché espellerli - dal Gran Muftì di Gerusalemme Amin al-Husayni, è falso e assurdo. L’incontro fra i due, avvenuto nel novembre del 1941, non produce grandi conseguenze; nessuno dei due ha, in fondo, alcunché di concreto da proporre all’altro: vi può essere solo uno scambio di promesse che, come accade spesso in questi casi, avviene oltretutto al ribasso, ognuno constatando la poca utilità dell’altro e non volendo impegnarsi in cambio di nulla. Ciò che si scambia in quell’occasione è allora il sostegno militare e politico tedesco alla causa della liberazione dei paesi arabi dagli imperialismi europei e dal Sionismo (che non avrà mai occasione di manifestarsi), per la simpatia, la vicinanza e la solidarietà delle masse arabe allo sforzo bellico dell’Asse, benché non sia chiaro fino a che punto il Muftì ne sia un reale e legittimo portavoce (anche questo dilemma resterà insoluto).
Che nella stessa circostanza, cordiale ma non certo cruciale, il capo del nazionalsocialismo e di una nazione che sembrava trionfante si sia fatto convincere dall’ospite levantino a trucidare milioni di persone è una favola smentita da troppi fatti: dal Mein Kampf, sia per ciò che vi si dice degli ebrei sia per la diffidenza ostentata nei confronti dei rappresentanti dei “popoli da liberare” (“…che a me fecero sempre l’impressione di chiacchieroni che si davano grandi arie senza avere nulla dietro di sé. Ma non pochi… si lasciarono abbagliare da quei tronfi orientali e credettero di avere davanti a sé, in alcuni studenti egiziani o indiani, i veri “rappresentanti‟ dell‟Egitto o dell‟India: e non si resero conto che per lo più si trattava di persone senza seguito, non autorizzate da nessuno a condurre trattati con chicchessia. Quindi il risultato pratico dei rapporti annodati con simili elementi fu nullo e il tempo impiegato nel negoziare con essi fu speso in pura perdita”); dalla personale disistima di Hitler per gli arabi e gli orientali in genere (“scimmie mezze laccate che vogliono sentire le fruste”: così scrive, in segreto, a un comandante della Wehrmacht); e soprattutto dal ritmo già industriale, per quanto ancora rustico e artigianale nelle forme, che gli eccidi di ebrei ad opera di tedeschi e alleati avevano preso con l’invasione dell’Urss.
Si può domandare allora, tornando all’inizio della nostra analisi: forse Netanyahu ha detto ciò che ha detto per affibbiare a tutti i palestinesi, attraverso il loro vecchio e imbarazzante Muftì, la responsabilità di un filonazismo che non sarà stato decisivo nell’Olocausto ma che certo resta orribile? Può darsi; ma la manovra sembra rozza, stupida e scoperta, e in più, anche per via di certe storie novecentesche in cui la Shoah e il destino del popolo ebraico hanno giocato un ruolo centrale, l’opinione pubblica europea tende a rifiutare le responsabilità collettive e le condanne di interi popoli, e a guardare semmai con sospetto e timore, come si guarda un uomo di altri e più bui tempi, l’istigatore di una simile meschinità.
Quello che voleva Netanyahu, invece, almeno a mio parere, non è né superato né stupido: la storia cui si fa riferimento è vecchia e arcinota, ma doveva servire a provocare un po’ di modernissimo shock, di quell’Incredibile! Clamoroso! Ecco cosa ti hanno tenuto nascosto! di cui vivono la comunicazione e l’informazione dei nostri tempi. Perché sì, non sarà vero che costui ha deciso l’Olocausto né sostenibile che tutti i palestinesi abbiano a che fare con lui, ma oh, quest’uomo ha incontrato Hitler! Ed è vero, innegabile! E che razza di uomo può mai andare a incontrare Hitler, parlare con Hitler, scambiare opinioni, piani, promesse con Hitler, con il nazismo, con il Male assoluto?
Concettualmente, se trasposto ad oggi, il gioco funziona. Hitler è il modello e insieme lo 0 kelvin di tutti i despoti e i semplici criminali (per una serie di buone ragioni che non voglio certo contestare); dire nazista di qualcuno può bastare a distruggere carriere e reputazioni; e revisionismi e atti neonazisti o nazistoidi non si accettano da nessun governo, stato, uomo politico - con la notevole eccezione dei nemici della Russia, i quali hanno un certo margine di libertà nel santificare qualsiasi Quisling o compiere qualsiasi misfatto per la causa -, pena l’esclusione da ogni consesso civile.
Il problema sta ovviamente nel trattare con il metro di oggi eventi storici risalenti a un periodo in cui la Germania nazista (e l’Italia fascista) non erano mostri né paria e non venivano segnati a dito come criminali, ma erano anzi stati europei occidentali e capitalisti come tutti gli altri; con, in più, una certa tendenza revisionista e contraria allo status quo che li rendeva particolarmente simpatici a un sacco di popoli occupati o colonizzati da Francia e Inghilterra. Per questo personaggi discutibili ma carismatici come Amin Al-Husayni si prendevano la briga di viaggiare fino in Europa per notificare il proprio sostegno a Hitler e per fargli vaghe ma magnifiche promesse; per questo interi partiti politici, come il Giovane Egitto, prendevano a modello per il proprio futuro di libertà i successi e i modi delle dittature fasciste. Il problema sta certamente, quindi, nel leggere con occhi di oggi quegli avvenimenti lontani, pre-Olocausto e pre-Norimberga, che, se analizzati distrattamente e senza i necessari strumenti, possono portare a una serie di scoperte apparentemente scioccanti e distruttive per l’immagine di personaggi e movimenti dell’Oriente del mondo.
Ma il problema, e questo Netanyahu nella foga retorica l’ha dimenticato o sottovalutato, è condiviso e diffuso. Se ad esempio qualcuno si fosse recato nel porto di Civitavecchia alla metà degli anni ’30, vi avrebbe trovato l’Accademia Navale “Betar”, un’istituzione gestita - con l’ovvio patrocinio e controllo del regime fascista - dalla parte conservatrice (non necessariamente ultraconservatrice o estremista: all’epoca, d’altronde, il fascismo non era considerato un fenomeno estremista) del movimento sionista, nota come revisionista e guidata da Ze’ev Jabotinsky; là si voleva formare il primo nucleo della potenza marittima di uno stato che ancora non era neanche alle viste ma che, quando fosse nato, sarebbe dovuto essere buon amico dell’Italia e del fascismo. E d’altronde, per un gruppo, quello sionista revisionista, che sognava di liberarsi dal dominio britannico e che vedeva in quella colonizzazione il primo e principale nemico, era perfettamente sensato ricercare l’amicizia di uno stato, l’Italia, che a ogni occasione si proponeva di combattere e cambiare lo status quo imperialista; non c’è, in questo, nulla di davvero sorprendente (semmai potrebbe essere più scioccante, specie per i complottisti ossessionati dalle furberie giudaiche, constatare che il diabolico e astutissimo Jabotinsky era sinceramente convinto che l’Italia fascista fosse una potenza reale e in ascesa, non quella nazioncella in declino che si nascondeva sotto la goffa guida politica e militare di Mussolini). D’altra parte, e più ancora che nel caso del sordido Muftì, il quale invece stringeva la mano di chiunque gli sembrasse utile alla causa palestinese, sono innegabili le vicinanze politiche e di metodo tra il revisionismo sionista e il fascismo non solo italiano; tanto che ancora nel 1948 vari importanti esponenti dell’intellighenzia ebraica - fra cui Einstein e Hannah Arendt - scrissero una lettera aperta contro la visita negli Stati Uniti di quel Begin allora capo del Partito della Libertà (una filiazione diretta del revisionismo sionista, di cui il Likud di Netanyahu è un nipotino lontano ma non spurio) e decenni dopo premier di Israele nel primo, storico governo conservatore. Né gli episodi di contatto e vicinanza tattica o strategica fra esponenti sionisti e governi fascisti (e in casi più rari, e generalmente spiegabili con ragioni umanitarie, anche nazisti) sono ben più numerosi.
Tutto questo discorso, evidentemente, vale anche al contrario: se l’Italia fascista incassò e alimentò la simpatia di una parte del movimento sionista, questo non le impedì di essere la maggiore finanziatrice dei gruppi per la liberazione palestinese e di ricevere la simpatia di partiti e movimenti giovanili un po’ ovunque nel mondo arabo; arabi ed ebrei, d’altronde, avevano allora lo stesso oppressore e ricercavano comprensibilmente la solidarietà e l’aiuto delle stesse potenze esterne.
Il discorso potrebbe continuare, ma il punto è, mi pare, chiaro: e non è banalmente quello che, avendo ognuno le proprie rogne e i propri parenti impresentabili, bene si farebbe a tenere chiusi certi album di ricordi (il che, per carità, in certi casi non sarebbe sbagliato). Quello che invece vorremmo sia chiaro è che, come la politica è l’arte del possibile, così la storia è la scienza del reale; i suoi personaggi, dunque, devono raggiungere i propri scopi e costruire le proprie scelte non acquistando i pezzi migliori e più adatti da un magazzino che non esiste, bensì con il poco o tanto che si trova in giro e che effettivamente esiste. Parlare con Hitler e inventarsi paralleli tra la millenaria tradizione islamica sunnita e la paccottiglia nordica nazista, o doversi mettere a fare saluti fascisti e sfilate ridicole per avere in cambio il magro aiuto di qualche nave e di pochi milioni di lire, non dev’essere stato facile per nessuno. Ma questa è la storia, e questo c’era allora negli empori: di scioccante c’è, semmai, i giri larghi che fanno gli esseri umani e la storia per raggiungere i propri traguardi, e il fatalismo con cui si adattano a tutto.
(Grazie a Domenico Torre per le preziose fonti e indicazioni).