L’industria del gas Usa brinda alla crisi ucraina

Se la guerra non la vuole nessuno l’attuale stato di tensione in Ucraina fa gola a molti, Stati Uniti in testa. Con la minaccia di invasione di Mosca le esportazioni del colosso energetico russo Gazprom verso l’Europa sono calate facendo salire ancora i prezzi del gas già impennatisi nel 2021. A gennaio 2022 le esportazioni di gas russo sono scese del 41,3% rispetto allo stesso mese dell’anno prima. E a brindare in questo momento è per prima l’industria del gas liquefatto statunitense che nelle ultime settimane, grazie alla crisi in est Europa, è diventata la prima esportatrice mondiale di gas liquido al mondo, superando persino il Qatar, che da anni dominava il settore con i propri cargo carichi di gas smistati in tutti gli oceani.

Il gas liquido, o Gnl, è molto più scomodo da trasportare del gas naturale che compriamo attraverso i gasdotti. Dopo l’estrazione viene raffreddato a meno 260 gradi Fahrenheit e portato allo stato liquido (in questo modo si riduce a un seicentesimo del suo volume e se ne possono trasportare maggiori quantità), poi deve essere trasportato via nave e infine “rigassificato”, ovvero riportato allo stato gassoso nei porti di destinazione. L’Italia di questi rigassificatori ne ha tre in funzione (uno in Toscana, uno in Liguria e uno off-shore nell’Adriatico davanti a Rovigo) e altri sei in via di apertura tra cui quello che dovrebbe sbloccarsi nel porto di Gioia Tauro diventando il più grande in Italia. Di questi porti si parla da decenni perché la loro costruzione ha portato a feroci battaglie ambientaliste perché per far entrare i giganteschi cargo di gas liquefatto nei porti devono essere in molti casi scavati i fondali marini. Secondo le stime una sola di queste navi può portare energia sufficiente ad alimentare 70.000 case per un anno.

Per gli Stati Uniti essere in cima alla classifica degli esportatori di Gnl è praticamente un miracolo. Appena nel 2016 non ne esportavano una goccia, se non dall’Alaska. A compiere il miracolo è stata per prima l’amministrazione Obama che, nonostante il muro ambientalista, ha concesso nuove licenze per il cosiddetto “fracking”, ovvero l’estrazione di gas e petrolio dalla roccia di scisto attraverso una contestata procedura di frantumazione del suolo in profondità. Con Trump la produzione è aumentata ancora e alla fine del 2020 gli Usa sono arrivati a estrarre il doppio di gas naturale rispetto al 2008.

Da allora le esportazioni sono cresciute fino a schizzare a dicembre scorso volando sopra quelle di Australia e Qatar. Per dare un’idea, nel luglio 2020 gli Usa hanno trasportato via nave in Europa 2 milioni di tonnellate di gas, a gennaio 2022 ne hanno venduti 7,3 milioni. Un affare tanto più allettante visto che i prezzi del gas liquefatto sono passati dai 2 dollari per mmBtu del maggio 2020 ai circa 30 dollari odierni.

Ma a vincere la partita non c’è solo Washington. In questi giorni l’Ue sta bussando alla porta di tutti i possibili venditori di gas per compensare la chiusura dei rubinetti dalla Russia. E in prima fila ci sono la Nigeria e il Qatar, con Doha che già viaggia praticamente al massimo della sua produzione. Secondo un’esclusiva riportata da Reuters nei giorni scorsi, dalla fame di gas europea il Qatar potrebbe addirittura guadagnarci l’accantonamento di un’indagine antitrust che Bruxelles porta avanti dal 2018 proprio sui contratti energetici. Con buona pace del rispetto dei diritti umani che il Parlamento Europeo ha chiesto a gran voce al Qatar di far rispettare sin dal 2013 e per cui si battono da anni Amnesty International e Human Rights Watch. Associazioni e organizzazioni internazionali puntano il dito sui diritti delle donne e delle persone Lgbt ma soprattutto delle sui diritti dei lavoratori, a partire da quelli nei cantieri dei mondiali di calcio 2022 che potrebbero creare non pochi imbarazzi a Bruxelles nei prossimi mesi se il fabbisogno di gas si facesse ancora più pressante.

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