Insegnante accoltellata in classe ad Abbiategrasso, Milano
(Ansa)
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Troppa fretta nelle conclusioni sul giovane che ha accoltellato la sua professoressa

Lo studente di 16 anni che ha accoltellato la sua insegnante in classe, nell'istituto Emilio Alessandrini ad Abbiategrasso a Milano è stato accusato di tentato omicidio aggravato. Secondo i medici, il giovane avrebbe un disturbo paranoide che avrebbe scatenato l'aggressione contro la professoressa. Un episodio che ha messo sotto choc il mondo della scuola e su cui sono intervenuti diversi esperti per cercare di analizzare il caso da “lontano”.

«Non si possono fare deduzioni, entrando con presunzione e arroganza in un caso che non si conosce come stanno facendo la maggior degli esperti chiamati in causa»- ci spiega il noto sociologo Maurizio Fiasco

Cosa ne pensa del caso?

«Speravo che stavolta ci venissero risparmiati i consueti commenti su vicende apprese “da lontano”. Conviene perciò prendere atto che l’aggressione violenta, e con il pugnale, all’insegnante della scuola di Abbiategrasso è un episodio estremo, e che non si deve nemmeno esser tentati a interpretare con schemi e narrazioni, in gran parte fuori bersaglio. La crisi adolescenziale, l’immaturità, la scuola sotto attacco, i genitori assenti… e altri refrain eludono la questione centrale. La ricostruzione di tutto l’evento: gli antecedenti, l’atto consumato, il contraccolpo in lui e nella sua cerchia di relazioni. L’adolescente che mena fendenti micidiali, dopo aver ruminato a lungo un misto di risentimento, di frustrazione e di sofferenza interiore va affidato esclusivamente a chi – con scienza e coscienza – lo prenderà in carico. Su mandato della procura minorile, nello spazio di riservatezza e di rispetto della persona, obbligato dall’ordinamento.Dunque, la diagnosi va lasciata al team di esperti e consulenti dell’autorità giudiziaria e, eventualmente, da chi entra nel processo su mandato della parte offesa e dell’imputato»

Che idea si è fatto della modalità con cui è avvenuto l’accoltellamento?

«Possiamo dire che è stata una violenza certamente estrema, registrando poi che dopo averla consumata il ragazzo non ha opposto resistenza ai carabinieri (come dichiarato dai militari). Constatiamo così che con quel gesto voleva richiamare l’attenzione su di sé, ovvero sollecitare quella responsabilità di ruolo degli adulti che si va estinguendo nella nostra società.Attendiamo perciò la versione della giustizia, perché entrare a gamba tesa nella valutazione di merito di questo episodio sarebbe una violazione deontologica. Se poi si volesse tornare sul tema generale della condizione dell’età evolutiva, dell’adolescenza, facciamolo: separando il tutto dal caso di cronaca. E’ palmare, infatti, che non possa addebitarsi a una generica “crisi adolescenziale” l’atto deliberato di pugnalare l’insegnante e di entrare in classe esibendo una pistola (sebbene giocattolo). Varrebbe la pena di evitare quella sorta di sit-com cui assistemmo, una ventina di anni fa, in centinaia di talk show dedicati al caso dell’uccisione da parte di una coppia di minorenni di Novi Ligure di una madre e di un fratellino. In quel caso si inondarono le televisioni di pseudo analisi all’insegna del “non sappiamo ascoltarli”, dell’adolescenza frenetica che corre senza limiti, della psicopatologia dei giovani, e altre amenità.Quando si verificano questi episodi, subito scatta la rincorsa a esporre sui mass media il rilievo del proprio ruolo: psicologo, sociologo, opinionista, scienziato della mente umana, educatore eccetera. Si prende così a pretesto la cronaca per proporre temi di tutt’altra caratura. Avvenne così con il caso di Omar e Erika, quando una compagnia di giro di esperti hanno costruito carriere e notorietà commentando – puntata dopo puntata – nessuna novità o elemento concreto. Rilanciano diagnosi proiettive, proponendo loro tesi vecchie di anni e di pubblicazioni. Con l’effetto di stimolare lo sconcerto e talvolta il panico tra la gente semplice. “Ma che succede? Ma davvero è una tendenza che prende piede tra i ragazzi, quella di accoltellare i genitori e i fratelli? Sono passati venti anni, e ricordo ancora quando dal giornalaio o facendo rifornimento di carburante, o al supermercato, mi domandavano “ma dottore, che succede? Dobbiamo aver paura dei nostri figli, che un giorno – per noia o per dispetto – potrebbero ammazzarci?».

Qual è la condizione degli adolescenti dentro la scuola?

«Se proprio ci impegniamo a riflettere sull’adolescenza, ripeto: senza associarla al caso di Abbiategrasso, di motivi di allarme ce ne sono tanti. Non vediamo quanta sofferenza provano i ragazzi per le nuove forme nuove di manipolazione che vengono consumate ai loro danni. I social network che diffondono tra gli adolescenti la pratica del “doxing” (circolazione online di informazioni personali come foto, video o altri dati intimi, di solito con intenzioni spiacevoli. Oppure il “Morphing'”, la tendenza a modificare la propria immagine utilizzando app per migliorare il proprio aspetto e nascondere eventuali difetti. E che dire del “sexting”, l'invio o ricezione di messaggi, video e foto personali a sfondo erotico. E poi c'è il capitolo Internet gaming disorder: il rischio di disturbo da uso di videogiochi. Sono tutte forme di sofferenza legate a questi strumenti digitali che i genitori non conoscono, e quindi davanti a comportamenti dei ragazzi che preoccupano, sperano di affidare allo psicologo e alla scuola il trattamento del disagio dei loro figli».

Cosa ne pensa dello psicologo a scuola ?

«Quel che ho capito tanto tempo fa, dalla lezione della grandissima psichiatra Mara Selvini Palazzoli (scomparsa da più di venti anni): saltare dalla questione pedagogica all’affidare i ragazzi “difficili” allo psicologo è un modo per stigmatizzarli. Assolvendo i sistemi degli adulti (scuola, famiglia ecc.) e provocando ulteriore sofferenza. Come accadeva una cinquantina di anni fa, ricadendo così nella creazione di classi per ragazzi “differenziali”, che preparavano la strada all’esclusione sociale anticipata. Lo “psicologo a scuola” serve a far spostare il focus dal problema. Quando peraltro gli adulti non sanno se essere permissivi o repressivi, e non sono un punto di riferimento».

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