Come Giorgia Meloni intende schivare le trappole d'autunno

S’annunciava ogni nefandezza: svolta autoritaria, oppositori esiliati, discriminazioni feroci, migranti braccati, diritti calpestati e saluti romani al mattino. Più che un’ipotesi, una certezza. Era l’ottobre 2023. L’apocalisse, a sentir gli scornati sconfitti, sembrava imminente. Eccoci qui, invece. Fine estate 2024. Giorgia Meloni riappare sorridente in camicetta gialla. L’economia italiana va. Meglio di Francia e Germania, comunque. Persino gli accaniti detrattori riconoscono meriti alla prima premier donna della storia repubblicana: atlantismo, europeismo, rigorismo. È stata disinnescata la mina piazzata dai predecessori grillini: il superbonus. Ma anche il reddito di cittadinanza, altro residuato assistenziale d’epoca giuseppina. E poi, ovviamente, c’è il considerevole calo degli sbarchi: meno 60 per cento rispetto al 2023.

Il governo Meloni è già uno dei più longevi. Adesso punta a terminare l’intera legislatura. Cinque anni. Un lustro. Altrove, sarebbe la normalità. In Italia, un evento soprannaturale. I 1.412 giorni del Berlusconi bis restano ineguagliati. «Fino a oggi» spiega a Panoramauno degli uomini più vicini alla premier, «hanno provato ogni giorno a farci l’esame del sangue, vaticinando instabilità, disastri, isolamento. Adesso è finita. La credibilità internazionale ci permette di concentrarci sul fronte interno, visti anche i buoni dati economici. Abbiamo davanti tre anni. E all’orizzonte, onestamente, non si scorgono grandi rischi». Eppure indomiti avversari e giornali avversi insistono. L’inciampo è dietro l’angolo.

Le fibrillazioni tra gli alleati sono l’avvisaglia. Matteo Salvini, capitano leghista, e Antonio Tajani, leader azzurro, sono ormai inconciliabili: uno troppo a destra, l’altro troppo al centro. La manovra economica, poi, sarà lacrime e sangue. Il debito pubblico resta monumentale. E l’Europa c’avrebbe già abbandonato al nostro destino. L’arcimeloniano sorride: «Beh, una certa sinistra e certi ambienti erano sicuri della caduta. Lavoravano per l’ennesimo inciucio. Non gli è riuscito. Adesso non intravedono più spiragli e schiumano di rabbia». Seguono, quindi, ulteriori sussulti. L’ultimo sarebbe il sogno della spallata giudiziaria. Un complotto ordito da giornalisti ostili e magistratura avversa. L’inchiesta coinvolgerebbe la sorella Arianna, accusata di adoperarsi per alcune nomine governative. «Se fosse vero che ora sono passati alla macchina del fango e alla costruzione a tavolino di teoremi, sarebbe gravissimo» commenta la premier.

Intanto, trappola dopo trappola, arriva l’autunno. Comincia l’annunciata stagione delle riforme? Giustizia, fisco, premierato, autonomia. In Parlamento, al di là delle polemiche estive, la coalizione marcia unita. A differenza degli avversari. Restano divisi su tutto. Non solo tra aspiranti alleati. Ma perfino all’interno degli stessi partiti. Il Pd, nonostante Elly Schlein abbia accontentato i cacicchi che aveva promesso di far fuori, è come sempre ostaggio delle correntine e correntoni. I Cinque stelle sono dilaniati dal duello finale tra l’Elevato, Beppe Grillo, e il Miracolato, Giuseppe Conte. E persino la premiata coppia Bonelli&Fratoianni, i dioscuri dell’ammucchiatina Verdi-Sinistra, spesso fatica a intendersi. L’unica comunanza, alla fine, resta la passionaccia per i referendum. Intanto, quelli proposti dalla Cgil. A ulteriore conferma che il vero leader resta il parolaio Maurizio Landini, scatenato segretario generale. Il governo ha già evitato la trappola del salario minimo. Ma un mese fa il sindacato rosso ha depositato quattro milioni di firme per abrogare le norme su licenziamenti, contratti a termine e sicurezza negli appalti. Perfino la Cisl si smarca: «Anacronistico». L’ultima battaglia di Landini, in effetti, non sembra appassionare le masse. Quindi, alza la posta: abrogare l’autonomia differenziata. Cosa diavolo c’entra il sindacato con le competenze delle regioni? Niente, ovvio. Ma tutto fa brodaglia antigovernativa.

Si spera nella mobilitazione popolare, certo. Ma le regioni del Sud, sobillate dalle accuse di impoverimento, s’aizzeranno davvero contro la premier affamatrice, al fianco del governatore campano, Vincenzo De Luca o dell’omologa sarda, Alessandra Todde? Improbabile, ragionano in via della Scrofa, quartier generale di Fratelli d’Italia. Sono regioni in cui, tradizionalmente, l’affluenza è bassina. E in questo caso, bisogna raggiungere il quorum: 50 per cento più uno dei votanti. Alle europee del 2024, tanto per fare un esempio, si è presentato al seggio meno di un elettore su due. L’unico cimento potrebbe arrivare con il referendum sul premierato. Il catastrofico precedente che fa sognare l’opposizione è il voto sulle riforme istituzionali indetto nel 2016 dall’allora premier, Matteo Renzi. Che però, con insuperabile autolesionismo, legò la tenuta del suo governo all’esito della consultazione. Si concluse malissimo. Peggio. Fu la fine politica dell’aspirante Rottamatore. Stavolta, però, sarà diversissimo. Meloni l’ha già detto: «Se la riforma non passa, chi se ne importa». Anche se dovesse andar male, amen. Nessuna personalizzazione. Quella che fu fatale all’allora segretario del Pd: «L’errore di Renzi l’ha già fatto Renzi» compendia il fedelissimo.

Comunque, la consultazione potrebbe arrivare nel 2026. Un lasso di tempo che, in politica, equivale a un’era geologica. L’ostacolo più vicino, invece, sono le regionali d’autunno. Si vota in Umbria, Emilia-Romagna e Liguria. Tornata complessa. In via della Scrofa mettono già le mani avanti: «Non si può sempre vincere». Comunque, non sarà dato particolare peso all’elezione. «Ha solo valore territoriale. Non ci sarà nessuna ripercussione sul governo, comunque vada». In Umbria il centrodestra ricandida Donatella Tesei. E in Emilia-Romagna appoggia la candidata civica: Elena Ugolini. E nella Liguria, spazzata dall’inchiesta sul porto? Sarà rivendicata continuità, scegliendo tra i totiani: il vicesindaco di Genova, Pietro Piciocchi o la deputata ligure di Noi Moderati, Ilaria Cavo. Insomma, mal che vada, sarà una burrasca passeggera.

Il timone di Fratelli d’Italia, intanto, resta saldamente in mano al coordinatore nazionale, Giovanni Donzelli, il gran mediatore. Un partito vecchio stile. Radicato sul territorio. Congressi in ogni provincia. Mai un dissenso plateale. Nessuna corrente interna. Mentre tutti gli altri si scornano, sembra monolitico. È passato in pochi anni dal quattro al 28 per cento. Eppure, non è dilaniato dalle usuali lotte di potere dei grandi partiti di massa. Facile, dicono gli avversari: non si muove foglia, che Giorgia non voglia. Ma non c’è mai stato un voto dissonante. E neppure un’accusa di accentramento. Tra poco partirà anche la scuola di partito, le Frattocchie di destra.

La Lega, invece, fibrilla. Il generale Roberto Vannacci, che ha avuto un plebiscito alle europee, è malvisto da parte della vecchia guardia. Mentre Forza Italia pare divisa tra governativi e malpancisti. Le ultime parole di Marina Berlusconi restano, tra gli avversari, lo spunto per appassionanti teorie: «Se parliamo di aborto, fine vita o diritti Lgbtq+, mi sento più in sintonia con la sinistra di buon senso». E dunque, insistono gli interessati retroscenisti, il partito fondato dal Cavaliere sarebbe pronto per una maggioranza alternativa. Guidato, ovviamente, dallo scalpitante erede: Pier Silvio. In realtà, nessuno dei figli del fondatore di Forza Italia pensa a una nuova «discesa in campo». Certo, eventuali accordi internazionali potrebbero accentuare moderatismo in politica e pluralismo aziendale. Mediaset, già dallo scorso anno, ha aperto a iconici giornalisti di sinistra, come Bianca Berlinguer. E Mondadori vuole acquisire Adelphi, la casa editrice della «gauche caviar». Ma smarcarsi da questo governo sarebbe, comunque, impensabile.

Una nuova stagione comincia anche in Europa. Persino gli arcigni odiatori concedono a Meloni un inaspettato percorso trionfale. È arrivata a convincere Ursula von der Leyen a siglare accordi storici, vedi quelli con Tunisia e Albania. Tutto, purtroppo, andava magnificamente. Fino a quando la premier, leader dei conservatori, decide di non rivotare la presidente della Commissione, evitando di accodarsi a verdi e socialisti. Errore madornale, gongolano gli sfascisti. Sbaglio irreversibile. Nulla sarà come prima. Altro che nuova Margaret Thatcher. Deriva orbaniana, piuttosto. La versione che, però, Giorgia racconta ai suoi è opposta: per la prima volta, sostiene, l’Italia ha una posizione di forza. Non c’è più un governo che mendica legittimità perché non ce l’ha in patria. È lo schema inverso dei predecessori. Premier mai eletti: da Renzi a Conte. Si scapicollavano in Europa cercando legittimità. «Non c’è alcun isolamento» ripete Meloni. «Siamo l’unico governo che aumenta i consensi. Grazie al voto degli elettori, non abbiamo bisogno di andare a Bruxelles con il cappello in mano».

Insomma, sarà un autunno rovente? Macché. Tiepidino, al massimo. Placido come alcune memorabili giornate ottobrine. «Dopo due anni di rodaggio, grazie alla stabilità cominciano le riforme» giurano a Palazzo Chigi. Il faraonico Silvio lo chiamava «il nuovo miracolo italiano». La guardinga Giorgia s’accontenta della «rivoluzione del buon senso».

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