Italia
November 10 2024
«Nei boschi del Vulture, dove salgo a piedi per visitare l’Abbazia di San Michele, cammino in un bosco fitto, in un primo annuncio d’autunno che tinge di tenue ruggine le foglie degli alberi che dal lago salgono verso la cima del monte. Una foresta di castagni e di querce, quale la videro i romani, quando tagliarono le ultime duecento miglia della via Appia; quale la attraversarono (o alla quale, comunque, si ispirarono) Orazio, Virgilio, Ovidio. Continuo a chiamare, fra me, questo paese Lucania, malgrado il suo nome ufficiale sia Basilicata: come dimenticare il riferimento a lucus, bosco e l’immediata eco, nel nome, del verde e fresco delle sue querce e dei suoi castagni? (...)». (Folco Quilici, Milano 1992).
Nel 1965 la Esso Italiana affidava a Folco Quilici (1930-2018) la realizzazione di una serie di cortometraggi dal titolo “L’Italia vista dal cielo”: l’iniziativa fu particolarmente impegnativa sia per l’enorme patrimonio paesaggistico da documentare che per l’innovativo uso dell’elicottero quale vettore della macchina da presa. Ne venne fuori una sorta di moderna “cartografia”, un ritratto ed una documentazione di mari, coste, città, opere d’arte note e meno note, filmate e documentate secondo tecniche innovative. Un viaggio -un volo d’elicottero- nella storia e nell’arte delle regioni d’Italia: ad accompagnare il grande esploratore, geografo, paesaggista e scrittore, al quale mi legava una sincera condivisione culturale per averlo avuto ospite di una lunga conversazione editoriale all’interno della Rassegna d’Autore “Praia, a Mare con…”, il 17 luglio del 2011, furono alcuni dei più autorevoli intellettuali degli anni Sessanta, quali Leonardo Sciascia, Cesare Brandi, Mario Praz, Italo Calvino, Guido Piovene, Michele Prisco, Ignazio Silone, Mario Soldati, Giuseppe Berto. E quel viaggio toccherà, nel 1967, proprio la piccola e quasi sconosciuta Basilicata: per la prima volta, lo spettatore italiano aveva la possibilità di toccare, grazie alle realistiche ed emozionanti descrizioni di Quilici, una terra antica, di affascinante bellezza, ma del tutto avulsa dal contesto culturale en vogue nell’Italia di fine anni Sessanta. In quella temperie culturale, la lezione di un veneto quale Giuseppe Berto (1914-1978) - «Per comprendere il Sud bisogna essere predisposti ad amarlo»- faceva da battipista alla Basilicata in un Paese ancora ampiamente diviso, culturalmente e geograficamente. Finalmente l’Italia del boom economico poteva scoprire un territorio che aveva visto proprio nella sua natura impervia il motivo del suo isolamento.
Una decina d’anni prima, mettendo mano ad una gran mole di materiale radiofonico raccolto tra il 1953 ed il 1956, Guido Piovene (1907-1974), grazie al suo “Viaggio in Italia” era riuscito a porre la “questione Lucana” all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale, intenta a ricostruire tanto le proprie basi materiali quanto quelle politiche, sociali e culturali: «(…) La Basilicata entra in quel contesto privilegiato di analisi che per programma e di fatto voleva la centralità del Sud; la sua posizione appare storicamente corretta e socialmente accorta nel momento in cui invoca un adeguamento del Mezzogiorno all’industria e alla tecnica del Nord, “senza la violenza, né contrasto con la sua vocazione”. Piovene è lontano dal reportage che punta alla trasfigurazione lirica delle impressioni, né si accosta alla Basilicata col pregiudizio coagulato da una forte intuizione preventiva (…)» (Sebastiano Martelli, Franco Vitelli, Rionero-Roma 1994).
Ed infatti lo scrittore e giornalista vicentino non tardò ad evidenziare nel 1965 che «(…) la Basilicata, non ancora assistita con speciale predilezione dai poteri centrali, è stata invece prediletta dagli intellettuali sopra ogni altra regione del Mezzogiorno, e sembra possedere il dono di aguzzare gli ingegni. Sulla Basilicata è Cristo si è fermato ad Eboli, cioè il libro che nel dopoguerra ha contribuito di più a imporre il problema del Sud alla coscienza nazionale (…)» (Guido Piovene, Milano 1990).
Quella svolta decisiva evidenziata da Piovene, arrivava grazie ad un romanzo autobiografico: Carlo Levi (1902-1975), scrittore, pittore, intellettuale e partigiano torinese, lo “partorisce” tra il 1943 ed il 1944 a Firenze e lo pubblica per Einaudi nel 1945: dieci anni prima, tra il 1935 ed il 1936, era stato condannato al confino proprio nelle “desolate terre di Lucania” a causa della sua attività antifascista, “deportato” nello sconosciutissimo borgo di Aliano, nel materano, sino a calarsi in prima persona nella realtà di quelle terre e delle loro genti. Dirà Levi, nella sua prefazione, che «come in un viaggio al principio del tempo, Cristo si è fermato a Eboli racconta la scoperta di una diversa civiltà. È quella dei contadini del Mezzogiorno: fuori della Storia e della Ragione progressiva, antichissima sapienza e paziente dolore. Il libro tuttavia non è un diario; fu scritto molti anni dopo l’esperienza diretta da cui trasse origine, quando le impressioni reali non avevano più la prosastica urgenza del documento» (Carlo Levi, Torino 1963). Evidenzierà lo scrittore torinese, ben più avvezzo alle Alpi che ricamavano la sua splendida Torino, che «(…) Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i romani, che presidiavano le grandi strade e non entravano fra i monti e le foreste (di Lucania, nda) (…)» (Carlo Levi, Torino 1963).
Ma dall’isolamento è nata anche la speranza! Siamo nell’area sud-occidentale della Lucania: il mare di Maratea, quello del Mito - «La bellezza dell’antica patria venne a Roma dal mare e Roma la restituì al mondo attraverso il mare, il Mediterraneo» (Francesco Sisinni, Roma 2003)- concede il proscenio, in appena 15 km in linea d’aria, al Gruppo del Sirino-Papa: diviso tra i Comuni di Lagonegro e Lauria, in provincia di Potenza, dall’alto dei suoi 2005 metri s.l.m., il massiccio detiene il record di sesta cima dell’intero Appennino meridionale, seguendo in classifica le cinque vette oltre i duemila metri che fanno della catena del Pollino l’Olimpo meridionale. Montagna che separa, ma non divide, Calabria e Basilicata...
Ricchissimo di flora (faggio, ontano, quercia, cerro) e fauna (lupo, volpe, lepre, rapaci), il gruppo del Sirino-Papa mostra fiero, nel versante nord, una conca scavata dalla morena di un ghiacciaio del Quaternario, durante la glaciazione di Wurm, risalente ad oltre 100.000 anni fa, ed uno specchio lacustre tipicamente alpino, il Lago Remmo o Laudemio posto a 1525 s.l.m., decretato Riserva Regionale nel 1985, muto testimone nell’incedere del tempo.
Quel ghiacciaio, nel suo lento ritirarsi nei millenni, ha lasciato spazio ad un’ampia conca, la Spalla dell’Imperatrice, all’interno della quale è iniziata un’altra storia, quella del decollo turistico, con tanto di inatteso legame con le Dolomiti! «(…) Nell’aprile del 1970, a seguito di contatti avuti con il Comitato Organizzatore dei Campionati Mondiali di Sci Alpino della Val Gardena, la traversata in sei del Monte Sirino è stata effettuata insieme con il Direttore della Scuola dei Maestri di sci di Selva di Val Gardena, maestro Ferdinando Rudiferia (…)»(Carlo Lotti, Roma 1970), e all’esito della straordinaria indagine esplorativa sulla vocazione sciistica dell’area, si concluse per la reale possibilità di piste di discesa da utilizzare per gli sport invernali. Nel settembre dello stesso anno, in occasione della XIX edizione della Festa Nazionale della Montagna dell’Italia meridionale, il maestoso gruppo entra nella sua fase di valorizzazione turistica con le prime opere permanenti: rete viaria, il primo rifugio ed un simpatico monumento bronzeo dedicato al “montanaro”.
Sino al collaudo ufficiale delle piste, che si tenne il 19 marzo del 1972, con sciatori lucani e gardenesi pronti ad una sfida del tutto inusuale: trasportati a bordo di un gatto delle nevi del celebre gruppo Prinoth di Ortisei -che aveva battuto la Spalla dell’Imperatrice- gli impavidi sciatori si lanciarono da quota 1800 metri, lungo la nuova pista, erede di quel ghiacciaio del Quaternario.
«(…) Con le gare di discesa indette dall’Amministrazione comunale e dalla Pro Loco di Lagonegro ed organizzate dallo Sci Club di Potenza, si era avuta, così, la verifica che la zona nordica del Sirino sovrastante il Lago Remmo, per la conformazione geografica, per la pendenza, per la quantità e qualità delle precipitazioni nevose e per la conservazione del manto nevoso fino ad aprile, per il panorama vasto e vario che offre, per le meravigliose faggete che la circondano, per la facile accessibilità (Autostrada del Sole A3), per la vicinanza al mare e ai centri turistici della costa (Praia a Mare, Maratea, Sapri), presenta tutte le favorevoli condizioni per divenire -create le infrastrutture necessarie e le opere di urbanizzazione- un’importante stazione turistica montana, estiva ed invernale, dell’Italia meridionale (…)». (Giuseppe Guida, Cosenza 1973). Una decina d’anni dopo, con la costruzione di una moderna seggiovia biposto inaugurata nel 1986, con nuove strutture sciistico-ricettive, con il recente agognato collegamento con l’altro centro sciistico di “Conserva”, nel confinante Comune di Lauria, il Gruppo del Sirino-Papa diviene una realtà per migliaia di appassionati degli sport invernali. Poi, la sorte malefica è sembrata palesarsi con le sembianze di una slavina di proporzioni inaudite per queste latitudini ma sufficiente per spazzare via alcuni piloni dell’impianto principale. Fato avverso, certo, ma anche incapacità politica, costata quasi dieci anni di blocco di esercizio. La popolazione attende fiduciosa, in molti hanno appeso gli sci al muro…
Intanto un’importante novità sul fronte della tutela paesaggistica: “perché il Parco Nazionale dell’Appennino lucano? La Finanziaria 1988 indicò come possibile un Parco nazionale nel cuore della Basilicata interna da collocare tra la Val d’Agri e l’area più a sud, fin quasi a lambire il mare. Lo scopo era di mettere insieme tutela dell’ambiente, sviluppo rurale e le tante attività collegate alla storia delle popolazioni e al loro passato (…). Venti anni dopo il progetto è diventato realtà con il decreto firmato dal Capo dello Stato nel dicembre del 2007. E così è iniziata la grande avventura (…)» (Rocco De Rosa, Soveria Mannelli, 2010).