Tecnologia
May 05 2017
"Penso che non ci sia alcuna singolarità. L’idea della “technological singularity”, vale a dire della capacità di costruire robot coscienti, o di un’A.I. (Artificial Intelligence) consapevole, dove puoi anche scaricare la tua esperienza e coscienza in un computer e lasciarla lì per sempre in una sorta di trans-umanesimo – e cose simili – riguarda solo il bisogno umano di controllo e di potere. Tutto qui: come scaliamo la competizione del potere?”
Non le manda a dire a nessuno, lo scienziato Federico Faggin quando gli si chiede della cosiddetta “crescita tecnologica esponenziale” con cui si arriva a dichiarare che “le macchine possono essere intelligenti” e persino avere una coscienza e una consapevolezza.
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Il riferimento è alla teoria della “singularity” dell’ingegnere e futurista, Ray Kurzweil, sulle cui basi (l’intelligenza artificiale che trascende l’umano), insieme a Peter Diamandis nel 2008 ha co-fondato la Singularity University (SU): think tank di Silicon Valley, in partnership con Google e Nasa, con sede per l’appunto a Mountain View.
Recentemente Faggin ha tenuto una lezione "sulla natura della coscienza tra esseri viventi e macchine", organizzata da The Leonardo Da Vinci Society di San Francisco presso il Museo Italo-Americano (foto), illuminando i limiti della tecnologia in rapporto alla potenza della natura.
Ha anche partecipato a un’interessantissima tavola rotonda sempre sul tema della relazione tra umani e robot in occasione del finissage della mostra di Norma Jeane: Scene with ShyBot, curata da Marina Pugliese e Dena Beard in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura presso la galleria The Lab nel Mission District di San Francisco.
Avendo da 4 anni il privilegio di frequentare Faggin sono tornato a conversare con lui molto più da vicino sull’argomento tecnologico per antonomasia, nel tentativo di capire se è veramente possibile che l’intelligenza dei robot in crescita esponenziale possa alla fine, come sostiene il “Movimento della Singularity”, superare quella umana e degli esseri viventi, raggiungendo persino lo stato di possedere una coscienza.
Perchè è un tema importante
L’argomento è sempre più controverso e scottante. Solo qualche giorno fa il CEO di Softbank Robotics, Masayoshi Son — 2° uomo più ricco del Giappone e 45° nella lista mondiale dei più potenti, secondo Forbes Magazine — durante la sua presentazione al Mobile World Congress di Barcellona, ha rilasciato previsioni, ostentando estrema certezza, sul compimento della “singolarità tecnologica” in meno di 30 anni; allineandosi di fatto con le indicazioni proiettate per il 2047 secondo i calcoli di Kurzweil, padre della “singularity” e direttore di Google.
Neuroni come microchip: la teoria
Masayoshi Son fonda la sua previsione comparando il numero di neuroni in un cervello al numero di transistor in un chip. Costruisce il suo paragone evidenziando che “entrambi i sistemi sono binari, e funzionano accendendosi e spegnendosi”. Secondo questa previsione, “il numero di transistor in un microchip supererà il numero di neuroni in un cervello umano entro il 2018.”
Non preoccupato dell’esattezza di questo numero, Son dice che la sua azienda “sta lavorando sullo sviluppo di A.I. con l’aiuto del Fondo di Softbank”. Il piano del Fondo è di “raggiungere 100 miliardi di dollari per sostenere le aziende tecnologiche che stanno sviluppando intelligenza artificiale”. Contemporaneamente, Son ha anche investito 32 miliardi di dollari per acquisire ARM, un’azienda di produzione di microchip. “Se questa super-intelligenza entra nei robot — è convinto Son — il mondo, il nostro life-style cambierà drammaticamente. Possiamo aspettarci ogni genere di robot: volanti, nuotanti, giganteschi, microscopici, che corrono su due, quattro, cento gambe.”
Basandosi sul numero di apparecchi connessi a internet — entro il 2020, 50 miliardi di oggetti per 5 miliardi di persone; mentre si calcola che in meno di 10 anni ci saranno 150 miliardi di sensori collegati a misurare dati in ogni direzione, vale a dire 20 volte di più della popolazione terrestre — Son ha concluso che: “la popolazione di robot super-intelligenti supererà quella della gente in 30 anni.”
Perchè un neurone non è un transistor
“Fare dichiarazioni simili fa paura perché crea un sacco di confusione" commenta Faggin. "Presupporre che un neurone sia equivalente ad un transistor è semplicemente assurdo! E poi francamente è ora di smetterla con le promesse mai mantenute della A.I., a cominciare da sessant’anni fa fino ad oggi in tre ondate successive. Io stesso mi appassionai nella seconda ondata in cui l’A.I. tornò in auge negli anni ’80, quando all’epoca la Synaptics, che fondai nel 1986, era l’unica azienda al mondo che lavorava per costruire reti neurali artificiali in silicio. Tale idea era considerata sacrilega dagli esperti A.I. del tempo, mentre oggi questo si è dimostrato l’approccio vincente. L’idea comune allora come oggi, era quella di considerare la coscienza come un epifenomeno delle operazioni cerebrali".
In altre parole: il cervello era visto come l’hardware di un computer, e la coscienza come il suo software. "Se questo fosse vero, avremmo già potuto ricreare la consapevolezza, no?" ironizza Faggin. "Oggi uno smartphone ha capacità di calcolo pari a mille miliardi di volte quella del migliore computer della fine degli anni ’50. Il cervello umano ha circa 100 miliardi di neuroni. Oggigiorno noi produciamo microchip che hanno circa 10miliardi di transistor. Se una porta logica e ogni bit di memoria – come molti scienziati pensano – fossero equivalenti ad un neurone, uno smart-phone, avrebbe già all’incirca la complessità che abbiamo nel nostro cervello. Se la consapevolezza fosse solo dovuta alla complessità numerica dei transistor-neuroni, lo smartphone dovrebbe già avere almeno una piccola consapevolezza. Invece anche gli stessi scienziati che fanno le grandi promesse sono d’accordo che lo smart-phone non è consapevole.”
Dall’altra parte, la teoria dei futuristi della “Singularity,” non spiega in nessuna maniera come avvenga il miracolo della consapevolezza e sembra mirare più al Big Data che alla coscienza. L’attenzione sembra riversarsi sul controllo di tutta l’info-massa che quotidianamente creiamo, navigando sul web e negli annessi paddock sociali (Google e l’ecosistema di Alphabet; FB e la sua gigantesca accolita tra WhatsApp, Messanger e Instagram, etc.), in cui si pascola da un recinto all’altro, producendo gratuitamente dati che ci riguardano. Da qui una A.I. sempre più potente e veloce si profila per pilotarci intellettualmente in un consenso politico e consumistico. Solo per dare un’idea dei numeri: nel 2016 abbiamo creato più dati che nell’intera storia della traccia dell’umanità sulla terra. La partita si gioca dunque su chi manovra il più straordinario algoritmo per de-criptare i nostri “personal data.”