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July 09 2018
Massimo Giletti, togliamoci subito la “noia” delle notizie. Lasci La7?
Rimango a La7. A Urbano Cairo devo gratitudine e rispetto. Mi ha dato libertà quando gli altri me l’hanno tolta. Non posso dimenticarlo. Resto dove sono.
E però non hai firmato e i telespettatori li ha salutati senza dare l'arrivederci a settembre. Non è una furbizia?
Dopo l’esperienza della Rai non posso più dare nulla per scontato ma sono un uomo per cui ancora la parola conta. Ciò non significa che non abbia nostalgia della Rai. Il mio addio rimane una ferita aperta.
Lasci intendere che a cacciarti sia stato il direttore generale Mario Orfeo. Ti senti l’ultimo degli epurati?
Io so chi ha deciso di chiudere l’Arena e mi spiace che Orfeo si sia reso complice di un’operazione che non è neppure servita a chi l’ha voluta.
La Rai non si è pentita anche se i tuoi ascolti li ha perduti.
Evidentemente Orfeo è un dg per cui i numeri non contano.
Ha detto che bisognava fare “una nuova televisione”.
Ci vuole davvero coraggio e tanta ipocrisia.
Non ci sono arene e sono forse domeniche al borotalco, ma non alimentano il rancore italiano.
L’Arena è stato un programma di inchieste. Sicuramente ha anticipato la lotta ai privilegi, il malumore contro un certo modo di fare politica. Lo riconosco. Ma non c’è stato mai rancore. Per intenderci, se avessi voluto alimentare tensioni aprivo il programma alle piazze. Ho scelto di non farlo.
È la tv del vaffa quella che non piace neppure al presidente di Mediaset Fedele Confalonieri.
Non credo che si possano fare 4 milioni solo con la tv del vaffa. Con la mia squadra abbiamo sempre e solo fatto inchieste.
Chi sono?
Su tutti Annamaria De Nittis e Fabio Buttarelli. Ho pianto quando ho dovuto dire a tutti: «Ragazzi, non abbiamo più nulla».
Ti commuovi spesso e quando fai televisione utilizzi il corpo. A molti sembra la qualità dell’attore più che del giornalista.
Io sono questo. Non ho filtri. Non voglio cambiare e non posso cambiare. È una televisione fatta di istinto e di passion.
Ma hai lanciato il libro di Mario Capanna e hai goduto nel farlo.
Non mi pento. Lo rifarei. Ho pagato ventimila euro di sanzione per quel gesto. Non potevo sopportare il suo ghigno di chi diceva di difendere gli ultimi e adesso sta sulle barricate per difendere i privilegi.
È tuo il nome L’Arena?
È dello scrittore Federico Moccia e devo dire che mi ha subito convinto. Sono un uomo di dialettica. Sangue e sudore. Mi piaceva.
Il nuovo programma lo hai chiamato “Non è l’Arena” ma è sempre la vecchia Arena e tu sei sempre uguale. Strizzi l’occhio ai populisti e in alcuni casi il più populista sembri tu.
Ho un’alta considerazione del popolo che è qualcosa di diverso dall’essere populisti. La sinistra ha cominciato a perdere quando a smesso di respirare gli odori del popolo. Lo ha sostituito con il fighettismo e ha cominciato a flirtare con l’establishment. Sono salottieri. Io non lo sono.
Sei stato un uomo di sinistra?
Sono stato un uomo di marciapiede. Tale rimango. Il mio miglior amico era iscritto a Democrazia Proletaria.
Hai militato?
Ho fatto politica a mio modo al liceo “Massimo D’Azeglio” di Torino.
Hai fatto annusare Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Di sicuro hai celebrato il matrimonio tra due diverse rabbie italiane.
La mia trasmissione è stata un po’ il loro laboratorio. Ma non ho mai parteggiato per alcuno. L’ex direttore generale Rai, Luigi Gubitosi, diceva che non si capiva mai da quale parte stavo. Lo ritengo un complimento.
E infatti non prendi parte e il tuo modo di condurre è sottile. Metti a loro agio i politici, ma poi li colpisci con i sentimenti: la pensionata, l’operaio che non arriva a fine mese.
Ma è questa la realtà del paese. Ne parlo perché davvero mi immergo nelle storie. Poi c’è certo una teatralità che fa parte del mezzo televisivo.
Per alcuni sei l’erede di Gianfranco Funari, ma tutti sanno che il tuo maestro è Giovanni Minoli. Il rischio è di finire arruffapopolo.
A Minoli devo tutto ma forse, televisivamente, sono più vicino a Santoro. Il mio cult televisivo fu il duetto Costanzo-Santoro quando bruciarono la maglietta con su scritto “mafia” al teatro Parioli.
È la televisione dei tribuni.
Ma era anche la televisione che dava voce a Giovanni Falcone.
Anche a lui sarebbe piaciuta L’Arena?
Credo proprio di sì.
Non credi che Non è l’Arena ecciti il paese, contribuisca ad aizzarlo?
Il popolo sa riconoscere l’autenticità. Sono convinto che la televisione possa ancora modificare il paese e farlo tendere alla virtù. La più grande medaglia, per me, rimane una dichiarazione dell’ex procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari. Disse che era inaccettabile che Giletti, unico a parlare di mafia la domenica pomeriggio, fosse lasciato andare via.
Altri?
Poche sere fa, Angelo Guglielmi, ex direttore di Raitre e grande intellettuale di sinistra, mi ha stretto la mano e mi ha fatto i complimenti.
Minoli ti ha avvisato e detto che, a volte, sei un demagogo.
Me lo prendo. Io credo semmai di mettere insieme l’alto e il basso. Sono laureato in giurisprudenza. Avrei potuto continuare la carriera universitaria. Ho fatto una tesi sul movimento operaio inglese. Mi sono formato sui testi di Norberto Bobbio che ritengo un pensatore insuperabile.
Ma hai imparato più dal regista che mette il buonumore alle casalinghe. La tua accademia è stata i “Fatti vostri” di Michele Guardì.
Lo rivendico. È stato lui a insegnarmi a condurre in piedi. Tra le mie fortune c’è stata anche quella di fare un viaggio in Puglia con Alberto Sordi che mi diede una vera lezione televisiva e mi disse: “Ah Gilè! Tu funzioni perché sai parlare alle nonne, alla zie e alle mamme”.
Veniamo alla tua. Si chiama Giuliana. Ha 90 anni e raccontavi che ti preparava le torte ogni settimana. Come Sordi incarni l’uomo che non si fa imbrigliare dalle donne ma solo dalla mamma. Preghi perfino. Sei un arcitaliano e come tutti gli arcitaliani puoi solo ubriacarti di popolarità.
Non corro questo rischio. Faccio una vita di romitaggio. Io difendo l’Italia piccola piccola perché la conosco ed è quella vera. Le torte, mia madre, non le fa più. Ma come vedi, vado a trovarla appena posso.
Siamo infatti a Trivero a casa dei tuoi genitori. I Giletti producono filati in provincia di Biella dal 1880. Tu stesso hai lavorato in fabbrica. Sei figlio del Piemonte aspro, valli fitte ma ambizioni sconfinate.
La Stampa, in un titolo, definì mio nonno così: “Giletti, l’Olivetti biellese”. Era un uomo che ci teneva al benessere dei suoi dipendenti. Nella villa dei miei sono passati scrittori come Ernest Hemingway e uomini di Stato come Carlo Alberto dalla Chiesa, ma era una casa aperta a tutti senza preclusioni classiste.
La tua famiglia produce filati e invece nel tuo studio va in diretta il paese sfilacciato. Non è un paradosso?
Lo ha detto anche mio padre: “Dovevi cucire e invece fai trasmissioni dove si strappa”. A volte occorre rompere per potere ricostruire.
Minoli tiassunse. Oggi invece ti intervista e ti solletica.
Rimane un genio con un carattere difficile. Ero uno dei pochi di cui si fidava. È una figura importante nella mia vita.
È l’uomo della televisione composta mentre tu sei scomposto quando conduci. Utilizzi i palmi, i pugni, muovi le mani che raccontano gli uomini come i capelli raccontano i pensieri della testa.
Nelle mani si concentra la biografia di un uomo. È vero che le utilizzo molto e che alzo troppe volte il dito.
Anche la voce e ti capita di dire: “Questi politici devono andare a casa”
Io credo nella politica ma l’accusa di essere populista è l’alibi della politica che non vuole cambiare.
Mostri infatti le angosce del popolo ma poi se ne appropriano i bottegai della paure.
Alle paure si deve rispondere. È chiaro che la sinistra risponderà in un modo diverso dalla destra ma l’errore del Pd è stato quello di sottostimarle.
L’ex ministro degli Interni, Marco Minniti, ci ha provato.
Ma è stato messo all’angolo dal suo stesso partito. Oggi non vedo nessun uomo di sinistra in grado di tenere testa a Salvini.
Ti piace?
È l’unico tra i politici che in tv si getta nella mischia senza sapere chi saranno gli uomini che lo sfideranno. Ci vuole coraggio. Dimostra di averlo.
Ma chiude i porti e indurisce i cuori.
A volte è necessario battere i pugni. È giusto farsi rispettare in quest’Europa unita solo dalla moneta ma divisa dagli nazionalismi.
I pugni, l’arena… Non credi che poi si passa ai censimenti?
Infatti diffido della piazza non ha sempre ragione. Quando deve decidere salva Barabba e manda sul Golgotà, Gesù. Mi fa paura il giacobinismo e l’esaltazione del cittadino.
Alessandro Di Battista era uno di quelli che al grido “picchiamo i giornalisti” sorrideva e ammiccava
E sbagliava. Il M5s dice però una verità quando ripete che ha convogliato la rabbia in un movimento democratico. È chiaro che adesso è arrivato il momento della competnza. L’onesta non basta. Il potere va gestito. Nei confronti di questo governo sono cauto. Gli ricordo però che la palude del potere fa sparire le buone intenzioni.
Parliamo dell’ultima puntata. Non è stata una cattedra per Fabrizio Corona? Per un attimo si è creduto un filosofo del diritto.
In carcere ha studiato diritto ma deve recuperare un equilibrio interiore per non sprecare tutto.
Chi dice che Corona è il diavolo?
Rispondo che il diavolo bisogna conoscerlo per fronteggiarlo.
Ma è finita in rissa.
A “Porta a Porta” ho visto un ministro tirare un calcio a una deputata.
Avresti invitato il figlio di Totò Riina come ha fatto Bruno Vespa?
Me lo hanno proposto e ho rifiutato. Quella è mafia.
Anche la carriera di Corona è un elenco di crimini.
Sono stato io a elencarli e ricordare che i soldi che deteneva, fossero fondi neri. Ma la sua non è mafia.
Ha insultato in maniera becera la giornalista Selvaggia Lucarelli e tu hai deciso di non tagliare quella parte. Perché ?
Non c’è dubbio che abbia sbagliato e per me ha perso un’occasione non stando sul contenuto delle cose. Ma io non censuro nulla.
Esiste il “gilettismo”?
Esiste.
Lo vuoi formulare?
“Avere la schiena dritta e non temere il potere dei palazzi".
Potresti finire per entrarci.
Non da peones. Ma la politica la faccio giù in tv.
I “gilettini”?
Tutti anarchici e rompiscatole. Un po’ come me.
Carmelo Caruso