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December 26 2024
Il 22 settembre del 2020 una giovane esordiente legò il suo nome a quello di Raffaele La Capria, conversando con lui ne “La vita salvata” (Mondadori). Un dialogo serrato che spaziava dalla costruzione della identità dell’uomo e dello scrittore, alla conoscenza del mondo tramite la poesia e la lettura, passando per la letteratura su cui il grande scrittore si era formato, a volerne rappresentare la tradizione, sino alla nuova letteratura, per molti versi distante anni luce dalla sua prospettiva. E ancora la stessa funzione della letteratura come elemento mnemonico nel mondo contemporaneo.
Giovanna Stanzione, salernitana, classe 1988, era riuscita a tracciare un ritratto di Raffaele La Capria (Napoli, 3 ottobre 1922 – Roma, 26 giugno 2022) di fronte al tempo che inesorabilmente passava, e con esso i cambiamenti che portava: in realtà non pesarono tanto i 66 anni di differenza di età quanto la circostanza che l’intervistatrice fosse pur sempre una giovane scrittrice che affacciandosi sulla scena letteraria si stava confrontando con un gigante della storia della letteratura italiana contemporanea.
Dottoressa Stanzione,non è da tutti aver dialogato così a lungo e così intimamente con uno degli autori più significativi del secondo Novecento.
«Il libro che ho scritto con Raffaele La Capria è stato “La vita salvata”. Fui io stessa a proporgli quel titolo per qualcosa che mi aveva detto nel corso di una delle nostre conversazioni: aveva sempre pensato che ciò che dell’esistenza meritasse di essere salvato non fosse tanto ciò che si vive, ma quello che si scrive dopo averlovissuto. Il titolo gli piacque e gli confessai che in realtà l’avevo scelto perché segretamente pensavo che la vita salvata del titolo fosse la mia, perché quei mesi a parlare di letteratura, poesia, identità, verità, bellezza e sentimenti con lui mi avevano come ripescata dal pozzo nero della mia esistenza dove da tempo ero caduta».
Un titolo salvifico…
«Quando gli proposi il titolo mi guardò e mi sorrise -con uno di quei suoi sorrisi che parevano ti comprendesseroe ti contenessero tutto-poi mi disse che lui pensava invece che la vita salvata da quel libro fosse la sua che veniva recuperata attraverso le nostre parole e la scrittura. Rimasi così sconcertata che scoppiò a ridere e alla fine disse: “facciamo che ci salviamo a vicenda”».
Certo che confrontarsi con La Capria avrà avuto un fascino del tutto particolare…
«Lui era insieme sognante e concretissimo, malizioso e disarmato. Pareva mutarsi continuamente davanti ai miei occhi in uno dei moltissimi La Capria che avevo conosciuto dai suoi libri. A volte sembrava sfuggirmi completamente. Poi, in una delle nostre conversazioni, mi citò un verso di Rimbaud che dice:“C’è chi vede e c’è chi crede di vedere”. Allora io gli chiesi se lo scrittore fosse colui che vede. Lui mi rispose: “C’è chi vede e chi crede di vedere. Non è tanto riuscire a vedere, quanto non illudersi. Lo scrittore è colui che non si illude”.Da lì il mio modo di vedere, come scrittrice, è cambiato».
Quell’incontro è stampato nella sua memoria…
«Ricordo di quando restavo ferma davanti a un vecchio e imponente portone di un palazzo del centro di Roma. Riflettevo sul periodo difficile che stavo attraversando, il più duro della mia vita, e sul fatto che dietro quel portone mi attendevano le mie ore di salvezza. Ore che passavo a discutere di letteratura, in primo luogo, e poi della fatica e dell’attaccamento di essere uomini e di essere scrittori».
Portone misterioso!
«Direi di no. Il portone era quello della casa dove da molti anni viveva Raffaele La Capria. È lì che è nato uno strano legame breve e profondissimo, tra noi che solo accidentalmente eravamo separati da 66 anni di età, sentendoci per il resto intimamente uguali. Lì si sono svolte le nostre discussioni sulla scrittura, sulla lettura, sulla poesia, sull’amore e sulla morte, su cosa abbia significato per noi salvare qualcosa dell’esistenza».
C’è un episodio che ha fatto da prologo a questo suo incontro “salvifico”?
«Un anno prima che il libro vedesse la luce, tornavo a casa, a Salerno, per stare vicino alla mia famiglia in un momento difficile. Non sapevo quanto sarei rimasta. Portavo con me due quaderni di appunti. Sarebbero dovuti diventare un libro e io lo avrei scritto in quella stessa casa della mia adolescenza in cui per lunghi anni avevo desiderato solo di fuggire».
Un tempo sospeso, pare di capire…
«Non sapevo bene come sarebbe andata, se l'avrebbero pubblicato, se a La Capria e agli editori sarebbe piaciuto. In realtà in quel momento non mi importava. Volta per volta l'unica cosa che davvero mi importava era portare a termine il capitolo cui lavoravo. In quella apertura e chiusura di capitolo si condensava l'intera mia vita, ed era quella ad aprirsi e chiudersi e riaprirsi nel capitolo successivo, per poi ricominciare. In quei mesi di scrittura sono sorta, morta e risorta per otto volte senza che nessuno intorno a me se ne accorgesse».
Cosa ha provato quando, finalmente, si è ritrovata il libro nelle sue mani?
«Mi accadde, per la prima volta nella vita, uno strano fenomeno di straniamento, perché rispetto alla “me” che ha scritto quelle parole io ero come se vivessi in controtempo. Io e La Capria abbiamo parlato molto del sentirsi sdoppiati quando si scrive e nella vita, in generale. Ma ora che il libro è qui, non mi sento sdoppiata perché chiaramente non è “me”. Eppure lo è stato».
Sarà colpa della scrittura!
«Forse, perché a differenza delle performance degli artisti che utilizzano il proprio corpo, i ballerini, gli attori, i musicisti e cantanti, che avvengono nello stesso istante in cui l'arte viene creata, sono cioè nel tempo, la scrittura, invece, è un’arte in differita, consumata e uccisa nel luogo solitario dello scrittore. Il libro è una carcassa.
Ma poi quella cosa finita, quel sacrificio compiuto in solitaria, nelle mani del lettore viene miracolata. Perché con il suo atto di leggere, con il suo cervello, gli occhi, le articolazioni delle dita, le connessioni vive tra le sinapsi, lui sceglie di resuscitare proprio quel libro, il mio, quel pezzo di me che mi ritorna diverso e vivo, più vivo di quanto io potrei mai farlo tornare».
Poi, finalmente, eccolo in libreria…
«Era da mesi che aspettavamo con trepidazione quel 22 settembre 2020 che rendesse pubblico ciò che era fino a quel momento privato e clandestino. Mi sono spesso chiesta cosa fosse davvero importante in quel libro, se lo scambio generazionale tra vecchio e giovane scrittore o le lunghe, sentite, discussioni sul ruolo della letteratura oggi e sempre, sulla sua reale natura, sulla sua effettiva importanza, oppure ancora il conservare l’eccezionalità di quello che era La Capria in quella nuova e differente età della vita».
Beh, avrà capito cosa fosse importante nel libro?
«L’ho capito grazie ai messaggi e le email, i commenti dei lettori del libro che mi sono arrivati mano a mano che affrontava la sua vita pubblica. Quello che davvero era importante nel libro, quello che toccava i lettori al punto da volermelo comunicare, era un sentimento che correva lungo tutti i capitoli e fino alla fine, forse anche indipendentemente dalle parole che io e lui pronunciavamo, da quelle che fissavo sulla carta. L’importanza in quel libro era anzi oltre le parole, eppure si poteva cogliere solo attraverso di esse, come si spiasse tra le maglie di un tessuto: riguardava l’incontro che si era creato tra noi che però non eravamo più solo noi».
Siamo curiosi!
«Aveva a che fare con l’intimità, la sincerità, l’essenza. Qualcosa che tutti conoscono, riconoscono, hanno provato. Ed avviene quando accade che non si è più un giovane scrittore e uno anziano, un uomo e una donna, ci si sveste per quel tempo di tutte le sovrastrutture, gli schermi, le definizioni e ci si ritrova unicamente uomini uguali a sé stessi in tutti i luoghi geografici, nei millenni. E allora eravamo questo mentre parlavamo di arte, di amore e di morte, eravamo noi e tutti gli uomini della terra, di ogni tempo, eravamo i nostri lettori, anzi tutti i lettori che avessero mai letto e tutti gli scrittori che avessero mai scritto. Lo ringrazierò in eterno per questa incredibile capacità di cogliere e restituire il cuore di tutte le cose. Non so che avrei fatto senza di lui».
Un ricordo finale.
«“Quello che stiamo facendo per me è come un sughero” mi ha detto un giorno La Capria, alla fine di una conversazione. “In che senso?”, gli ho chiesto. “Nel senso che mi tiene a galla”».