L'Iran al centro dei mali del mondo, e non paga mai

Hamas e la Jihad islamica palestinese, l’Hezbollah libanese, gli Houthi dello Yemen, le Unità di Mobilitazione Popolare irachene, l’esercito di Putin in Russia, quello di Assad in Siria e di Maduro in Venezuela, persino i narcos sudamericani. I tentacoli del regime iraniano - le loro armi, i loro soldi – si allungano in ogni direzione sulla mappa geografica, creando una rete internazionale che sponsorizza senza più nascondersi il terrorismo, le dittature e le guerre.

C’è l’Iran dietro l’attacco di Hamas del 7 ottobre. C’è l’Iran dietro la pioggia di missili nel Golfo di Aden. Ci sono i droni iraniani dietro i bombardamenti indiscriminati di Mosca sulle città ucraine. Ci sono i ryal iraniani (la moneta locale) anche dietro alcuni dei golpe africani degli ultimi anni dove, come per il Sudan, volentieri Teheran arma e vende «pacchetti sicurezza» alle fazioni in lotta.

Senza i finanziamenti degli ayatollah, molti «Stati canaglia» e organizzazioni terroristiche non potrebbero sopravvivere e prosperare. Così come la paura di un’ecatombe nucleare sopra il cielo d’Israele potrebbe scomparire, se Teheran non perseguisse il sogno di dotarsi di un’arma nucleare, sia pure dietro le mentite spoglie di un’emancipazione energetica.

Dalla rivoluzione khomeinista del 1979, da quando cioè il Paese si è trasformato in un regime oscurantista nel segno dell’Islam più retrogrado, gli Stati Uniti hanno cercato di contenere la Repubblica islamica e i suoi proxy in ogni modo possibile: dal boicottaggio dell’arricchimento nucleare al killeraggio sistematico dei suoi agenti nel mondo. Lo stesso ha fatto Israele, consapevole che uno degli obiettivi dell’espansionismo persiano prevede la completa cancellazione dello Stato ebraico dalla mappa mediorientale.

Nonostante ciò, nessun negoziato, sanzione, minaccia o strategia di contenimento dall’esterno è sinora riuscita a frenare gli ayatollah. Eppure il regime sciita è profondamente impopolare presso il suo stesso popolo. Lo dimostrano le tre grandi rivolte interne che hanno avuto luogo nel 2009, nel 2019 e nel 2022 (ancora in corso), dove la popolazione civile si è ribellata agli ayatollah nonostante questi ultimi abbiano scatenato contro di loro uno stato di polizia sempre più repressivo e soffocante.

Ma per il momento il potere resta saldo in mano al duopolio dei religiosi e della casta militare dei pasdaran, entrambi depositari dell’architettura khomeinista ed eredi viventi della prima generazione di rivoluzionari. Nonostante un’economia improduttiva, parassitica e basata esclusivamente sul petrolio che strozza il Pil, aumenta la disoccupazione e impoverisce la popolazione, questo duopolio non è ancora collassato dall’interno: e questo non solo perché detiene i cordoni della borsa dell’economia nazionale e gestisce direttamente le grandi aziende di Stato, ma anche per il fatto che, come tutti i regimi nel mondo musulmano, anche quello iraniano si avvantaggia del fatto che l’Islam è una cultura di sottomissione, dove la passività è vissuta quale parte integrante della dimensione culturale e sociale della comunità.

Come scrisse Edward Luttwak all’indomani della morte del generale e leader dei pasdaran Qassem Souleimani, «chi sostiene che Islam significhi “pace” fa solo propaganda; il vero significato della parola è “sottomissione”, e infatti è coerentemente ciò che questi Paesi confessionali praticano. I governi islamici tendono a durare per sempre: anche Saddam Hussein avrebbe vissuto molti anni ancora al vertice dell’Iraq, se gli americani non lo avessero prima catturato e poi fatto impiccare da patrioti. Ma i leader che si professano islamici, quando non vengono uccisi, hanno forti chance di restare saldi al potere. Gli iraniani non fanno eccezione e sono a loro volta sottomessi anzitutto alla loro religione».

Vero o meno che sia, molti analisti (non soltanto occidentali) ed élite dell’Islam sunnita (vedi Arabia Saudita) cominciano a domandarsi se non sia il caso di porre fine al regime di terrore iraniano, e se non sia più facile che il regime cada anche grazie a una spallata proveniente dall’esterno.

Al netto delle operazioni d’intelligence, l’ultima volta che c’è stato uno sforzo serio per sostenere il popolo iraniano contro i suoi tiranni è stato nel 1995, quando l'allora presidente della Camera Newt Gingrich aggiunse 18 milioni di dollari al bilancio nascosto dell’intelligence Usa per operazioni segrete contro la leadership della Repubblica islamica. Ma quel denaro non sarebbe mai stato speso.

Così oggi siamo al punto di partenza. Con la differenza che i missili balistici e le avventure militari dove prevale l’ideale di Souleimani di espansione sciita (in Yemen, in Iraq, in Siria e in Libano) sono oggi al punto forse più alto di sempre, almeno da quando lo Stato Islamico è collassato a cavallo tra Siria e Iraq.

Israele, un Paese di appena dieci milioni di abitanti, non può certo competere con il gigante persiano, forte di ottanta milioni di abitanti e di un Paese sterminato che siede su una miniera d’oro nero. Né può pensare di intraprendere all’infinito sforzi immani per limitare o rallentare il programma di armi nucleari dell’Iran, ormai a un passo dalla bomba nucleare. Perciò, ha bisogno di alleati del calibro di Washington. Dove però il dossier Iran recita: «Attuare politiche di contenimento e neutralizzazione della minaccia diretta e specifica».

Niente spallata, dunque. «Troppo pericoloso», dicono alla Casa Bianca tanto i democratici quanto i repubblicani. Ai tempi di Donald Trump, per dire, il suo consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton continuava a insistere perché il presidente desse il suo assenso a un conflitto aperto contro l’Iran. Risultato? Trump dovette licenziarlo. La risposta iraniana, tuttavia, anziché di riconoscenza fu una sfida diretta agli Stati Uniti: un attacco organizzato dallo stesso generale Souleimani contro l’ambasciata americana a Baghdad, dove una folla inferocita penetrò nel perimetro del cortile. La reazione americana, a quel punto, fu colpire il leader dei pasdaran per fermare l’escalation (è stato ucciso nel maggio 2020).

Difficilmente gli Stati Uniti, chiunque sia al governo, daranno mai luce verde a una guerra contro la Repubblica Islamica, che resta un player importante nell’equilibrio geopolitico dell’Asia centrale. E se anche la guida suprema dell’Iran, ayatollah Ali Khamenei, abbia dichiarato più volte che «quando si canta “Morte all'America!” non è solo uno slogan, è una politica», la minaccia non viene presa così sul serio oltreoceano al punto d’imbastire una guerra.

Anche perché l’obiettivo americano e israeliano non è l’Iran in sé, un Paese dalla cultura e dalla storia millenarie che tutti apprezzano; ma soltanto il suo vertice attuale, dove una teocrazia cieca e bellicista tiene in scacco un intero popolo. Così, se gli Stati Uniti attendono un passo falso del regime per provare a decapitare il vertice (e il caso degli Houti in Yemen potrebbe fornirgli l’occasione), Israele continua a usare il metodo più aggressivo e pericoloso dell’aggressione mirata e preventiva.

Nessuno dei due sistemi, in ogni caso, ha sinora scalfito seriamente il potere degli ayatollah, che peraltro oggi si avvantaggiano di rilevanti connessioni internazionali, in quello che appare a tutti gli effetti come un nuovo «asse del male» dove, oltre a Iran e Corea del Nord, figurano anche potenze del calibro di Russia e Cina. Il che rende la sfida ancora più grande e ancora più minacciosa. A ben vedere, però, i nodi verranno presto al pettine.

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