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January 02 2018
È presto per dire se le proteste in Iran rappresentano la vigilia di una nuova rivoluzione, ma alcune analogie con i precedenti storici del Paese destano grande interesse.
Innanzitutto il calendario. A differenza del Movimento Verde, che si sviluppò in estate dopo le accuse di brogli alle elezioni presidenziali del 2009, le attuali proteste cadono nello stesso periodo dell’anno della Rivoluzione islamica di Khomeini. E cadono a un anno esatto dalla morte di Rafsanjani, l’ex Presidente riformista, al quale il New York Times aveva dedicato un’intensa prima pagina indicandolo come il bulwark (il baluardo) dei progressisti contro le tendenze autoritarie del sistema. Nonostante i suoi 82 anni Rafsanjani aveva ancora un ruolo di mediazione (era a capo del Consiglio per il Discernimento) tra i poteri dello Stato. La sua scomparsa, coglieva esattamente nel punto l’editoriale del NYTimes un anno fa, ha lasciato il segno.
Se per la Rivoluzione del 1978-79 la città decisiva fu Qom, la capitale teologica del Paese, oggi le proteste sono partite da Mashhad. Il suo nome è poco noto al circuito turistico classico, ma non per questo è meno cruciale. Mashhad è la seconda città iraniana dopo Teheran, con oltre due milioni di abitanti. È inoltre il principale luogo spirituale di sepoltura della nazione, santuario di due importantissimi Imam della discendenza di Ali. Non per niente fu proprio l’allora Presidente Ahmadinejad – per l’anniversario della morte dell’Imam Reza (l’ottavo Imam sciita) – a dichiarare la città “la capitale spirituale dell’Iran.”
Mashhad aveva quindi tutte le carte in regola per essere il teatro della prova generale, e infatti la protesta si è estesa, arrivando a Teheran e poi in molte città dell’Iran.
Come ha scritto Kapuscinski nel suo fondamentale libro sull’Iran "La scelta di questo famoso momento è uno dei massimi enigmi della storia" se a far scattare la rivoluzione che destituì lo Scià di Persia nel gennaio del 1978 fu un articolo contro Khomeini pubblicato dal foglio governativo Etelat, oggi la protesta economica (nata da una chat in Telegram con origine Mashhad) sembra essere la scintilla, ma a ben guardare c’è polvere sotto allo storico tappeto persiano.
In un Paese con un tasso istruzione elevatissimo, la coscienza del disagio economico alimenta l’assenza di riforme politiche. Istruire la gioventù ma non darle sbocchi può rivelarsi un boomerang.
Ma attenzione a chi è il vero bersaglio delle proteste: la Presidenza di Rouhani o la Guida Suprema Khamenei? Sono infatti due situazioni molto diverse. Nel secondo caso la sfida sarebbe davvero il preludio di una rivoluzione, ma non bisogna mai dimenticare come nella visione degli sciiti il primato religioso sia sempre superiore a quello politico. In un certo senso è sacro.
Nel primo caso occorre invece fare attenzione ad alcune forze carsiche che sono attive nella società iraniana e che fanno capo ai conservatori. E qui si torna all’epicentro della protesta, la regione di Mashhad, da dove viene Raisi, lo sfidante di Rouhani alle ultime presidenziali.
Insomma il fronte conservatore, guidato da Raisi e da un Ahmadinejad che sembra volersi ricandidare, soffia sul fuoco della protesta e alimenta una massiccia propaganda antigovernativa. Secondo questa lettura ci troviamo di fronte al noto e ormai annoso scontro tra forze conservatrici e forze progressiste. Ma se l’urto delle proteste dovesse estendersi dal governo alla Guida Suprema, i conservatori potrebbero pagare un prezzo altissimo per la loro scommessa avventata.
Esattamente come faceva il potere dello Scià, anche nell’Iran di oggi il potere punta il dito contro lo “straniero” che agisce dentro i confini della patria: ai giornali di un tempo si sono sostituiti i social media, ma nella sostanza poco è mutato e, come scriveva Kapuscinski, “è sempre il potere a provocare la rivoluzione.”