iris setti rovereto
(Ansa)
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Iris Setti, un omicidio «annunciato» che si poteva evitare, a termini di legge

«Quello di Iris Setti massacrata e uccisa da Chukwuka Nweke è stato un omicidio annunciato»Inizia così l’analisi dell’Avvocato penalista Daniele Bocciolini sulla brutale aggressione che ha tolto la vita a Iris Setti, uccisa sabato sera a Rovereto, per mano di Chukwuka Nweke nigeriano di 37 anni. Una morte che sono in molti a chiedersi se poteva essere evitata visto il profilo di Nweke. Un caso limite ma non isolato di un soggetto che molto spesso sotto l'effetto di alcol e droga infastidiva urlando i residenti del quartiere Santa Mariache più volte si erano lamentati con le forze dell'ordine degli atteggiamenti del 37enne. Arrivato nel 2006 in Italia, ha collezionato reati per danneggiamenti e aggressioni alle forze dell'ordine, mentre la sua compagna con la quale aveva tre figli, aveva chiesto aiuto ed era stata inserita in un alloggio protetto. Una personalità potenzialmente molto pericolosa che non era seguita né dai servizi sociali né da un centro per le tossico dipendenze nonostante un anno fa, il 21 agosto 2022, in un forte stato di alterazione imputata all’abuso di alcol, aveva danneggiato delle auto in sosta e aggredito dei passanti tra cui un ciclista e i carabinieri. Da quell’episodio erano scattati i domiciliari, tramutati poi in obbligo di firma che non gli hanno impedito di massacrare Iris Setti uccisa a pugni sul volto mentre tentava di stuprarla.

Cosa prevede il nostro ordinamento giuridico, per soggetti con questi precedenti?

«In casi come questo si parla di tragedie ampiamente annunciate, proprio perché possono e devono essere evitate. Questo soggetto si era già reso protagonista di violente aggressioni e di resistenza alla forza pubblica, e, in sostanza era libero di circolare sul nostro territorio. Nonostante i precedenti, e a fronte di una personalità che avrebbe meritato ulteriori approfondimenti, gli era stata applicata una misura cautelare molto lieve quale l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria (cd. “obbligo di firma”) che prevede che l’indagato si presenti una o due volte al giorno al commissariato di competenza. La misura cautelare più adatta viene anche decisa, oltre che in relazione alla capacità a delinquere , anche in base alla gravità del reato. Nel caso di specie, i precedenti non erano stati ritenuti così gravi. Troppo spesso però l’obbligo di firma si rivela una misura inidonea a contenere il pericolo. In questo caso, se ne parla perché si è arrivati al gesto estremo. Altri casi passano sotto silenzio. Non ci si può affidare al caso, ma bisogna giocare d’anticipo. L’Italia è sempre il paese del giorno dopo. Da penalista devo però precisare che molto spesso non è così semplice perché sono diversi i fattori che possono impedire un intervento efficace. Spesso il “garantismo” è eccessivo, ma occorre rimettere al centro del sistema anche la vittima».

L’uomo aveva già dimostrato una pericolosità sociale ma non era in carico nell’Asl ne al Serd e la compagna ed i figli erano in un centro protetto. Cosa ne pensa?

«È necessario effettuare immediatamente una valutazione della personalità del soggetto al fine di verificare la presenza di eventuali disturbi di interesse psichiatrico e, successivamente, analizzare la pericolosità sociale. Occorre stabilire, anzitutto se si tratta di un soggetto capace di intendere e di volere e in quale forma. Successivamente, bisogna valutare il rischio: ovvero se si tratta di un soggetto pronto a commettere altri reati. In questo caso, va applicata subito una misura cautelare adeguata che possa contenere il rischio che il soggetto torni a commettere altri reati della stessa specie e, soprattutto, che non faccia del male a sè stesso e agli altri. Solitamente, nei casi in cui si è di fronte a una personalità violenta, le misure più adeguate sono gli arresti domiciliari (spesso inapplicabile ai senza fissa dimora per ovvie ragioni di indisponibilità ad accoglierli) e la custodia cautelare in carcere. Successivamente, se emerge un disturbo della personalità, l’ambiente carcerario potrebbe rivelarsi incompatibile con lo stato di salute e si richiede il ricovero in strutture più adatte, idonee a prestare le dovute cure. Ora ci sono le cd. “R.E.M.S.” che hanno costituito i manicomi giudiziari. Tali misure sono applicate quali misure di sicurezza nei casi in cui il soggetto non è imputabile e non può scontare la pena in carcere».

Avv. Daniele Bocciolini

Ci sono delle misure che possono essere attivate per questo genere di casi, per monitorare che non rappresentino un pericolo?

«In questi casi è fondamentale la comunicazione e l’immediatezza. Deve scattare una rete in grado di proteggere l’incolumità personale e quella pubblica. Spesso mancano l’intuito, ovvero la capacità di prevedere il rischio, e la sensibilità che permette di comprendere immediatamente la gravità della situazione. Nel caso di specie, come capita spesso, la denuncia è stata fatta direttamente dai famigliari dell’uomo ovvero dalle sorelle che avevano intuito dai comportamenti sempre più aggressivi posti in essere ai loro danni, che avrebbero potuto sfociare in qualcosa di più grave. Più volte avevano chiesto l’applicazione di un t.s.o».

Come mai nessuno aveva preso in considerazione queste richieste?

«Prima che si entri nel circuito penale (in questi casi la competenza spetta al magistrato), quando si tratta di soggetti vulnerabili che hanno già manifestato aggressività e segni di alterazione mentale , la segnalazione può essere fatta da chiunque abbia avuto contatto con il soggetto, anche dal medico di famiglia. A volte sono i servizi sociali ad affidare le persone con questo tipo di problemi a progetti elaborati insieme al Servizio di Salute Mentale. Successivamente il soggetto può essere affidato alle cure di uno psichiatra o inserito in una struttura. Il trattamento sanitario obbligatorio invece non è così automatico: si applica nei casi in cui le alterazioni sono così gravi da richiedere un intervento psichiatrico urgente, viene imposto solo quando si configura il pericolo reale per sé o per altri. Per farlo occorre sempre e comunque una attenta valutazione».

Le sono mai capitati casi del genere?

«Mi capitano molto frequentemente. Troppo spesso c’è una sottovalutazione del rischio e una incapacità di trattare soggetti con eventuali problematiche legate alle dipendenze e alle patologie psichiatriche. Quando si tratta di persone senza fissa dimora, diventa tutto ancora più complicato perché alle carenze del servizio sanitario, subentrano problematiche enormi a livello burocratico. Sembra si sia costretti a far finta che si tratti di soggetti invisibili. Ma in uno Stato di diritto questo è intollerabile. Occorre aiutare questi soggetti e, soprattuto, i familiari a volte completamente abbandonati e inascoltati. Non le dico quanto sia difficile trovare un posto in una R.E.M.S. Al momento in Italia abbiamo centinaia persone in lista di attesa. Nel frattempo la maggior parte di questi soggetti sono a piede libero con il rischio di commettere altri reati anche molto gravi. C’è stato sicuramente un corto circuito e le eventuali responsabilità sono diffuse. Ad esempio, nessuno considera che dopo la pandemia i disturbi mentali sono aumentati esponenzialmente. Per consentire una corretta gestione del problema che rappresenta una emergenza nazionale occorre anzitutto consapevolezza. Ma occorrono anche risorse e personale qualificato in ogni ambito. Che questo caso sia un’occasione per iniziare a inquadrare correttamente queste problematiche figlie deldisagio e , soprattutto, a smettere di girarsi dall’altra parte. Tutti noi possiamo apportare un contributo».

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