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May 14 2018
Il 70esimo anniversario della nascita dello Stato di Israele è stato preceduto da violenti scontri al confine con la Striscia di Gaza, già da marzo, quando i palestinesi hanno iniziato una serie di proteste, destinate a culminare il 15 maggio, data definita Nakba, ovvero "la catastrofe".
Le manifestazioni, che nelle intenzioni degli organizzatori avrebbero dovuto essere pacifiche per chiedere il "diritto al ritorno" dei discendenti dei rifugiati nelle terre espropriate, si sono trasformate in guerriglia aperta contro l'esercito israeliano.
A questa situazione si aggiunge la tensione altissima con l'Iran, dopo l'annuncio dell'uscita degli Stati Uniti dall'accordo sul nucleare. Le celebrazioni di Israele arrivano anche dopo le reazioni all'intenzione - anch'essa destabilizzante per tutta l'area mediorientale - di spostare l'ambasciata statunitense dalla capitale Tel Aviv a Gerusalemme, città sacra per tre religioni.
Tutto ciò in un momento storico delicatissimo anche sul fronte interno del Paese, con il premier, Benjamin Netanyhau, che finora è riuscito a respingere le accuse di corruzione, confermando l'intenzione di voler continuare a guidare il Paese.
Secondo un recente sondaggio l'82% degli israeliani è fiero della sua identità e definisce il proprio Paese "un luogo dove vivere bene". Eppure la quotidianità in Israele è scandita da attentati e stato perenne di allerta. I numeri parlano chiaro: sono oltre 23.600 coloro che hanno perso la vita in nome del diritto di Israele ad esistere, tra soldati, poliziotti e vittime di terrorismo.
In 70 anni la popolazione è passata dai circa 800 mila abitanti agli oltre 8 milioni 840 mila, compresi i 3 milioni e 200 mila immigrati. Il Pil pro capite è superiore a buona parte di quello dei Paesi europei, il tasso di natalità sfiora il 3%, eppure l'esistenza stessa dello Stato di Israele è minacciata da diversi paesi mediorientali, a partire dall'Iran.
La decisione degli Stati Uniti, annunciata dal presidente Trump, di abbandonare gli accordi sul nucleare iraniano ha avuto come primo effetto quello di far scattare ulteriori misure di sicurezza in Israele, soprattutto al confine tra con Libano, Siria e Giordania.
L'esercito di Tel Aviv ha richiamato i riservisti, ordinando l'apertura dei rifugi nella zona, dove si teme un'escalation di tensione. I vertici delle forze armate con la stella di Davi hanno anche segnalato attività inusuale e sospetta in Siria, dove i jet dell'aviazione israeliana hanno condotto un raid, a sud di Damasco, pressoché in contemporanea con la conferenza stampa di Trump.
Lo stesso capo della Casa Bianca ha spiegato che, nel decidere l'uscita unilaterale degli Usa dall'intesa sul nucleare dei 5+1 (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Cina, Russia e Germania), hanno pesato le prove presentate dal premier israeliano, Netanyahu, a fine aprile. Documenti secondo i quali Teheran ha violato le disposizioni, proseguendo con il programma di arricchimento dell'uranio per realizzare ordigni atomici.
Da inizio 2018 sono stati diversi gli scontri tra forze israeliane e iraniane, in territorio siriano, dove la Repubblica islamica sostiene Assad.
A creare ulteriori preoccupazioni, non solo nell'area mediorientale ma tra tutta la comunità internazionale, è poi la volontà dell'amministrazione Trump di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, di fatto considerando quest'ultima come capitale. Una decisione accolta da proteste nel mondo islamico, che proprio a Gerusalemme affonda le proprie radici religiose, insieme al mondo cattolico ed ebraico.
Dopo mesi di indecisioni sulla data, è stato scelto di trasferire l'ambasciata il 14 maggio, data dall'alto valore simbolico, proprio perché coincide con quella del riconoscimentodello Stato di Israele. Non a caso il ministro dell'Intelligence israeliano, Israel Katz, ha accolto con entusiasmo la notizia: "Mi congratulo con Donald Trump per la sua decisione di trasferire l'ambasciata Usa nella nostra capitale nel 70esimo anniversario dell'Indipendenza" ha twittato, aggiungendo: "Non c'è regalo più grande di questo. La mossa più corretta e giusta. Grazie, amico".
Si tratta, in realtà, soprattutto di un gesto formale: secondo media israeliani nell'edificio scelto, nel quartiere di Arnona che ospita già il consolato, si insedieranno l'ambasciatore David Friedman e un ristretto gruppo di funzionari.
Durissima la reazione palestinese, che considera lo spostamento un atto unilaterale che "non contribuisce al raggiungimento della pace e non offre legittimità", come spiegato da Nabil Abu Rudeinah, portavoce del presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese (ANP), Abu Mazen. Più duro il Segretario generale del comitato esecutivo dell'Olp, l'organizzazione per la liberazione della Palestina, Saeb Erekat, che ha detto: "Il fatto che l'Amministrazione americana abbia scelto il giorno dell'anniversario della Nakba è una provocazione per tutti gli arabi e i musulmani e lo condanniamo con il massimo della forza. Anche per questo l'Amministrazione Usa non può svolgere il ruolo di sponsor nel processo di pace".
I negoziati, dunque, subiscono una battuta d'arresto, nonostante l'ambasciatrice statunitense all'ONU, Nikky Haley abbia fatto sapere che il piano di pace Usa è "quasi pronto" e che questo "non sarà amato da tutti, ma neanche odiato".
Il 70esimo anniversario di fondazione viene dunque festeggiato da Israele in un clima di aperto scontro (anche militare sul campo) con i palestinesi, che hanno proclamato la "Marcia del ritorno" il 30 marzo, per ricordare quello stesso giorno del 1976, definito Land Day ("Il giorno della Terra") quando il governo israeliano inviò l'esercito a espropriare le terre di proprietà araba in Galilea. Una Marcia destinata a proseguire fino al 15 maggio, giorno appunto della Nakba, "la catastrofe", perché ha sancito la nascita e l'indipendenza di Israele.
A dispetto delle intenzioni iniziali, i primi scontri si sono registrati proprio a fine marzo al confine tra Gaza e Israele, lungo una cinquantina di chilometri, in particolare nei pressi di Rafah e Khan Younis nel sud, a El-Bureij e Gaza City al centro, e a Jabalya nel nord. A guidare le manifestazioni è soprattutto Hamas, più oltranzista dell'ANP.
Ai conflitti esterni si aggiungono le difficoltà interne al governo israeliano, con le accuse di corruzione, frode e abuso d'ufficio mosse nei confronti del premier. Per ora Benjamin Netanyahu negato ogni colpevolezza, tenendo testa alle accuse, emerse con chiarezza a gennaio dopo un anno di indagini testimonianze e interrogatori. Il capo del Governo, parlando in diretta tv, ha definito l'indagine "faziosa, un tentativo per rovesciarmi".
A decidere in merito a un'eventuale incriminazione è il procuratore dello Stato, che non si è ancora pronunciato e che potrebbe farlo non prima di qualche mese. Nel frattempo Netanyahu ha fatto sapere di non aver intenzione di dimettersi, neppure in caso di formalizzazione delle accuse, contando sul sostegno unanime del governo e del partito.