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September 18 2018
Le speranze di pace vissute nei giorni della firma degli accordi di Oslo tra Israele e Olp, siglati il 13 settembre 1993 alla Casa Bianca sotto gli occhi dell'allora Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, sono un ricordo lontano.
Quasi tutti i punti chiave discussi 25 anni fa, sono ad oggi disattesi per una serie di motivazioni storico-politiche che hanno impedito il completamento dei processi di pace tra Israele e Palestina.
Gli obiettivi di allora erano ambiziosi: gli accordi avrebbero dovuto stabilire il riconoscimento reciproco tra Israele e la nuova realtà politica, allora concepita come provvisoria: l'Autorità Nazionale Palestinese. La firma del settembre 1993 ebbe come protagonisti il Segretario dell'OLP Yasser Arafat ed il Primo Ministro israeliano Yitzak Rabin, entrambi ormai scomparsi da lungo tempo.
All' interno degli accordi si possono ritrovare alcune delle storture e delle omissioni che porteranno all'odierno fallimento di molti di quegli obiettivi. Sinteticamente, si possono riassumere con il mancato accordo definitivo sui confini dei due stati, sulla gestione dei rifugiati palestinesi, sulla omessa dichiarazione di ritiro totale dell'esercito israeliano dai territori occupati. Ma anche dal rifiuto palestinese di riconoscere ufficialmente lo Stato di Israele e, da parte di Tel Aviv, di accogliere le richieste palestinesi riguardo allo status di capitale di Gerusalemme.
Questi punti non risolti, impediranno in modo determinante l'applicazione dei processi di pace. Già durante l'anno successivo la firma di Washington, un'escalation di gravissimi fatti di sangue mineranno alla base i risultati dei dialoghi. Il 25 febbraio 1994 l'ex ufficiale medico israeliano Baruch Goldstein uccideva a colpi di mitra decine di palestinesi riuniti in preghiera nella moschea di Hebron.
Il 4 novembre 1995 uno dei due protagonisti degli accordi del 1993, Yitzak Rabin, cadeva sotto i colpi dell'estremista israeliano Ygal Amir. L'assassinio avvenne proprio dopo un discorso sul processo di pace.
Pochi anni dopo, sarà lo scoppio della seconda intifada del 2000 ad allontanare ulteriormente il processo di pace e il futuro sviluppo di uno Stato indipendente di Palestina, che avrebbe dovuto rimpiazzare la struttura provvisoria dell'Autorità Palestinese.
Anche il processo di ritiro delle truppe di Tel Aviv dalla Cisgiordania subì una brusca inversione di marcia dopo l'intifada, con il ritorno degli Israeliani nei centri urbani e l'allontanamento di parte dei moderati che sostenevano la road map disegnata sette anni prima.
Anche la questione della sicurezza è stata un punto cruciale del fallimento dei progetti di pace dei primi anni '90. All'interno dei territori assegnati al Governo dell'Autorità, il compito della gestione dell'ordine pubblico e del contrasto al terrorismo è stato affidato con tutti gli oneri alla nuova realtà politica. Questo ha generato lo sblocco di ingenti risorse a favore di Israele, una volta disimpegnata dalla gestione della sicurezza in Palestina.
Un altro punto irrisolto dopo gli accordi di Oslo, è quello del ritiro dell'esercito di Tel Aviv dai territori occupati. Dopo la firma del 1993 infatti ad una parziale operazione di ritiro dei soldati israeliani ha fatto seguito un graduale rientro, accelerato dopo il 2000 per gli effetti della seconda Intifada. Ad oggi si calcola che circa il 60% della Cisgiordania sia occupato dalle truppe israeliane. La questione dell'indipendenza territoriale della Palestina era dunque vanificata, anche a causa della sempre più consistente presenza di coloni israeliani (ad oggi oltre 600.000).
Se da una parte l'istituzione ed il riconoscimento dell'Autorità Palestinese ha portato negli anni benefici alla popolazione in termini di occupazione nelle amministrazioni locali, dall'altra è stata un volano per la crescita di fenomeni negativi come la corruzione. Il quadro è stato inoltre aggravato dalla netta frattura politica tra Fatah e il movimento integralista Hamas, che ha più volte portato la Palestina vicina alla guerra civile. Il declino politico dell'Autorità Palestinese si è inoltre acutizzato per le ripetute accuse di collaborazionismo con Israele rivolte alle Forze di Sicurezza. Anche la reggenza prolungata di un'entità (che avrebbe dovuto all'origine essere provvisoria) da parte di Muhamad Abbas ha generato una virata autocratica nella vita politica del Paese, con la repressione sistematica del dissenso. Da sottolineare, inoltre, che il vecchio leader è ormai ammalato e senza un successore certo. Ad inasprire l'isolamento internazionale di Abbas ha contribuito ultimamente la politica estera del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, con la dichiarazione unilaterale della decisione di Washington di considerare Gerusalemme capitale naturale dello Stato di Israele, con una brusca sterzata dalla politica del dialogo inaugurata dal suo predecessore Barack Obama e sconfitta definitivamente nell'aprile del 2014.
Un'ulteriore aspetto del fallimento dell'ultimo quarto di secolo sulla questione della Palestina è quello che riguarda l'aspetto energetico. I Territori palestinesi dipendono totalmente dalle forniture di Israele, fatto che determina una crescita costante del debito per le casse dell'Autorità Palestinese. La gestione israeliana delle linee elettriche di Gaza è risultata un'arma in mano a Tel Aviv che ha sistematicamente interrotto le forniture nei momenti di massima tensione con la Striscia.
Neppure i giovani palestinesi oggi credono più in una vecchia istituzione isolata e minacciata, retta da un vecchio Presidente autoritario come Abbas. E neppure possono far sentire il proprio dissenso imbavagliati da censura e repressione poliziesca. Tale situazione sta creando nelle fasce più giovani della popolazione un nuovo serbatoio di conflittualità, che sta confluendo nella già altissima tensione sociale di un paese spaccato e parzialmente occupato manu militari. Un'opzione, quest'ultima, che a 25 anni dai sogni di pace sottoscritti sotto lo sguardo compiaciuto di Clinton pare essere la più vicina all'attuale politica israeliana.