Israele-Palestina: il conflitto tra tre luoghi comuni
Marco Ventura
Tra israeliani e palestinesi, ancora una volta, un conflitto di luoghi comuni che si traduce in sangue da una parte e dall’altra.
Primo luogo comune: il muro
Per cominciare, c’è muro e muro. E non tutti i muri vengono per nuocere. Anzi, il muro visibile interviene spesso a separare quel che già è separato. L’ultimo muro, simbolicamente suggestivo, è quello di blocchi di cemento rimovibili sistemato dalla polizia israeliana tra il quartiere arabo di Jamal Mukkaber e quello ebraico di Armon Hanatziv, a Gerusalemme Est.
Un muro “innalzato” a seguito delle incursioni dalla parte araba della città verso quella ebraica nella cornice della nuova Intifada: serve a proteggere la colonia ebraica dal lancio di molotov e pietre.
Smentendo un secondo luogo comune, va detto che non sempre coltello o molotov sono così innocenti. Seppure sbilanciati rispetto alle armi di cui è dotato l’esercito israeliano, pietre, coltelli e molotov possono uccidere, hanno ucciso, uccidono, prevedibilmente uccideranno ancora.
Ciò che riesce difficile o impossibile capire per un europeo è l’ossessione (non psicotica ma pragmatica) degli israeliani per la sicurezza. Ma provate a vivere voi in un Paese che alcuni fra i vicini vorrebbero veder sparire dalle mappe geografiche.
Un muro non è che un muro: una barriera di protezione. A Gerusalemme risulta indispensabile. Già 230 chilometri di un altro muro corrono come divisori tra i quartieri delle due “autorità” (palestinese e israeliana) e sono serviti eccome a scongiurare attacchi terroristici con morti e feriti. Si può dire che siano stati utili alla pace.
Gli elicotteri che macinano chilometri su Israele, per esempio per raggiungere le alture del Golan, devono anch’essi rispettare invisibili barriere celesti: lo spazio aereo che sovrasta i Territori, e quello che si stende su Israele. E rischiano brutto se sconfinano. Anche quelli sono muri.
L’insidia della nuova Intifada sta nell’apparente assenza di pianificazione degli attacchi. Si tratta, qui, di giovani disperati ed esasperati, palestinesi, che irragionevolmente si lanciano su israeliani più forti e meglio armati, in uniforme. Non sono proteste pacifiche o flash mob del weekend, innocui eventi mediatici a sorpresa.
Si tratta di attacchi all’arma bianca o col fuoco e hanno un solo obiettivo: uccidere. Frutto del panico e della rabbia è l’uccisione del rifugiato eritreo scambiato per profugo e “linciato” dopo l’attacco alla fermata dell’autobus di Beersheva, a sud di Israele: ma non era lui il terrorista, c’è stato uno scambio di persona.
In Israele, ogni volta che riparte l’attacco dalle zone palestinesi ci sono civili e militari israeliani che rischiano la vita. È vero, Israele applica misure controverse, criticate anche da esponenti “istituzionali” israeliani, come la distruzione delle case degli attentatori. Case di famiglia. Con una singolare inversione per cui le colpe dei figli ricadono sui genitori. La politica del bulldozer.
Terzo luogo comune: il dialogo
Ma dopo il muro e il coltello, il terzo luogo comune è il dialogo. Che non c’è. Esempio: la Francia propone osservatori sulla Spianata delle Moschee (proposta svincolata da qualunque seria riflessione UE, a dimostrazione che l’Unione non esiste). In risposta, il premier israeliano Netanyahu, appoggiato in questo dal Segretario di Stato USA John Kerry, restituisce l’idea al mittente, dicendo che solo Israele può garantire il mantenimento dello status quo. E non ha tutti i torti.
Qui c’è un presunto avvio di dialogo da parte francese e un “rifiuto” da parte israeliana. Ma la realtà è diversa dalla fiction. E avanzare proposte che si sanno già non accoglibili significa minare l’interlocuzione (quella vera).
La fragilità delle leadership in campo palestinese (la figura più popolare è Marwan Barghuthi e sta in carcere, le altre due a Gaza e Ramallah sono in conflitto tra loro quasi più che con Israele) è un ostacolo alla pace quanto e più del rigore di Netanyahu sullo status di Gerusalemme o sulle colonie. Ben vengano i muri, quindi, finché non sbocceranno fiori nei cannoni.