Tecnologia
March 19 2024
L'Italia investirà un miliardo di euro per creare la sua intelligenza artificiale. Lo ha annunciato la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, spiegando che a supportare la necessità di costruire una via italiana all'IA sarà la cifra messa sul piatto grazie a Cdp Venture Capital, mediante un nuovo fondo di investimento dedicato alla tecnologia più ‘calda’ del momento e il ricorso a fondi di investimento già attivi e che coinvolgono l'IA, come dimostra l'approvazione dell'Unione Europea dell’AI Act, la prima legge al mondo sul tema. Tornando alle questioni di casa nostra, la novità annunciata dalla Premier soddisfa la comunità dei ricercatori che studiano pregi e difetti di una tecnologia diventata improvvisamente nota a tutti ma che in realtà ingloba al suo interno molteplici anime e potenzialità ancora da scoprire. «L'intelligenza artificiale può diventare la leva per le aziende, per diversi settori industriali e per il Paese», spiega Rita Cucchiara, professore ordinario di Sistemi di elaborazione dell'informazione e Responsabile scientifico del laboratorio AImageLab del Dipartimento di Ingegneria “Enzo Ferrari” dell'Università di Modena e Reggio Emilia.
Partiamo dalla base: un miliardo di euro per l'Intelligenza Artificiale e per creare una via italiana all'IA. Da esperta della materia, cosa significa questa notizia?
«Come rappresentante della comunità di ricerca che si occupa di IA sono estremamente felice per una novità importante, perché indica che il governo italiano ha consapevolezza che questi strumenti sono importanti, ma che non sono da demonizzare, quindi solo a bloccare o controllare, né una chimera di ricerca, bensì soluzioni mature che possono rappresentare una leva per l'economia del paese ma anche per la gestione del welfare del Paese. Quindi l'attenzione del governo, considerando che dallo scorso ottobre stiamo lavorando alla strategia italiana sull'IA, significa che c'è la volontà e la possibilità di ottenere buonissimi risultati, e credo che l'Italia possa riuscire nell'intento, perché le competenze ci sono e ora ci sono anche i finanziamenti adeguati».
Volendo fare una road map per l'utilizzo dei fondi messi sul piatto, quale potrebbe essere il primo punto da cui partire?
«La premessa è che l'intelligenza artificiale è un ombrello che racchiude molte tecnologie, la cui punta dell'iceberg più nota è la gestione del linguaggio, cioè i Large Language Model che oggi sono sulla bocca di tutti. In realtà c'è tanto altro, dalla gestione dei dati sensoriali per l'ambiente a quelli visuali per un gran numero di applicazioni, che vanno dalla medicina all'industria. In questo senso, spero che i fondi annunciati siano utilizzati a tutto tondo, in particolar modo per produrre intelligenza artificiale in Italia, come confermato da Alessio Butti, Sottosegretario di Stato con delega all'Innovazione, che già all'inizio della nostra collaborazione ci ha chiarito tale obiettivo. In questo momento l'Italia non può rimanere indietro, ma deve sviluppare tecnologie per l'IA, per le quali servono aziende informatiche in grado di farlo e la collaborazione tra queste ultime e gli esperti del mondo finanziario, medico e dei vari altri settori di interesse. Così l'IA potrebbe diventare una leva non solo per le aziende informatiche ma anche per quelle attive su altri versanti, che ne trarrebbero automatico beneficio. Così come le startup emergenti legate all'IA, che sono tantissime e che vanno sostenute per essere consolidate ed evitare che siano vendute all'estero, tenendo a mente che oltre a loro ci sono tante aziende serie già in grado di contribuire allo sviluppo dell'IA italiana».
Quando ci sono in ballo tanti soldi, bisogna pensare anche a cosa non si deve fare?
«Capita spesso che quando una tecnologia diventa improvvisamente popolare, generi credenze popolari che portano al proliferare di corsi per diventare esperti, oppure sedicenti guru che spacciano facili soluzioni o ancora aziende che non hanno compreso la portata del cambiamento e si affidano a chi non ha le adeguate competenze per eseguire determinati lavori. Come avvenuto fino a 10-15 anni fa per sviluppare un'applicazione o un sito web. Serve perciò attenzione nella ricerca di professionalità e investimenti per l'apprendimento automatico, per le GPU che sono molto costose ma anche il giusto compenso per i nostri tecnici. Non possiamo pensare di continuare a pagare poco chi ha determinate capacità, perché altrimenti questi se ne andranno all'estero. Credo che il governo sia sensibile a questo aspetto, come dimostrano le misure adottate per il ritorno dei cervelli in fuga per riportarli e mantenerli sia nell'ambiente di ricerca universitario, sia nell'ambito lavorativo. Anche perché per un paese affetto da un grave calo demografico, perdere le menti più brillanti sulla cui formazione si è investito tempo e denaro, equivale a perdere la spinta verso il futuro. Confido che questi siano concetti chiari al governo, per questo penso che l'intenzione sia finanziare le aziende italiane affinché si riesca a creare una tecnologia italiana, senza dipendere da software provenienti dai paesi asiatici o dalla Germania. A ciò si lega un'altra sfera di interesse cruciale per l'Italia, cioè la digitalizzazione intelligente della pubblica amministrazione: sono convinto ci saranno investimenti per creare software in grado di migliorare e rendere più efficiente l'accesso alla PA sia da parte dei cittadini, sia degli esperti interni chiamati a gestire enormi mole di dati».
Nell'ottica di costruire un piano e una visione industriale italiana per l’IA, ci sono esempi cui guardare in Europa o nel resto del mondo?
«L'intelligenza artificiale esiste da tempo ma ha avuto una forte accelerazione negli ultimi dieci anni, quindi è una tecnologia giovane che non offre molte best practice ed errori. Si può vedere, tuttavia, quanto fatto dalla Finlandia, che sta portando avanti una formazione capillare su questi temi per combattere paure e disinformazione attraverso la conoscenza. Altro esempio è la Germania, che da anni sta investendo per creare cattedre specifiche in AI, al fine di trattenere le professionalità più abili del settore. La priorità è costruire un futuro a lungo termine per creare qualcosa di solido, con sullo sfondo l'esempio massimo della Silicon Valley, dove un ecosistema rilevante di università e aziende collegate al territorio ha permesso la creazione di multinazionali capaci di creare e gestire l'innovazione».
Con il loro enorme potere finanziario e relativa influenza, le aziende simbolo della Silicon Valley non rappresentano un pericolo per lo sviluppo di una alternativa forte in ambito europeo per l’IA, considerando anche quanto noi europei siamo dipendenti dai servizi delle big tech?
«Questo è un dato di fatto assodato perché, tanto per fare un paio di esempi, noi non possiamo vivere senza Google Maps, oppure senza ricorrere a strumenti di Google e Microsoft quando utilizziamo un dispositivo elettronico. Ma in questo momento ci serve la consapevolezza di collaborazione, perché non possiamo chiudere la porta alle partnership con grandi aziende, come sta succedendo in Francia, dove si stanno sviluppando laboratori congiunti di ampie dimensioni, mantenendo al contempo i nostri capisaldi in termini di democrazia, tassazione, privacy e tutto ciò che ci contraddistingue. Questa sarebbe una soluzione per collaborare senza una totale sudditanza verso strumenti prodotti altrove ma utilizzati e modificati nel nostro paese per creare conoscenza, consapevoli che l'Italia dovrà produrre in un futuro a breve termine soluzioni di intelligenza artificiale a largo spettro. Il punto è che l'Italia da sola non fa niente ma può fare tanto all'interno dell'Unione Europea. Una collaborazione internazionale a livello europeo può rappresentare la svolta: ci sono tanti progetti collaborativi europei degli ultimi 2-3 anni che coinvolgono università italiane e atenei europei e stanno ottenendo ottimi riscontri. Un esempio è Elias, progetto di ricerca su intelligenza artificiale e sviluppo sostenibile del pianeta guidato dall'Università di Trento e finanziato con fondi europei. Non ci sono dubbi che serva una intelligenza italiana, ma credo e spero in un progetto coordinato a livello europeo».
Se capitale umano e finanziario ci sono, l'Italia può ambire a diventare un polo tecnologico?
«Non possiamo permetterci di non fare del nostro paese un grande polo tecnologico, diffuso da nord a sud. L'Italia non può abdicare la sovranità tecnologica di un settore così importante, che pesa su tanti ambiti produttivi e sociali».