Economia
April 17 2019
Delle due l'una: o l'Iva aumenta a gennaio 2020 o ildeficit italiano balza al 3,4%. E visto che la seconda ipotesi non è ammissibile, l'unica soluzione è che i 23 miliardi di euro che devono saltar fuori per evitare l'aumento del deficit pubblico arrivino dal ritocco dell'Iva. E' quanto ha affermato il Ministro Tria, salvo poi frenare spiegando che fino alla fine dell'anno si lavorerà per scongiurare l'aumento.
Perché le clausola di salvaguardiaimposte dall'Europa impongono che i conti tornino e che vengano ciclicamente previsti rincari automatici a copertura di spese pubbliche già decise per poi provare a scongiurarne il rischio cercando alternative.
Al momento in Via Nazionale tutti sanno che l'aumento dell'Iva è più di una prospettiva remota e all'interno del Def il doppio ritocco delle aliquote dell'imposta sul valore aggiunto è stato annunciato in maniera chiara sia nel quadro tendenziale sia in quello programmatico.
Da Palazzo Chigi, però, si minimizza e tutte le parti politiche ripetono che non c'è niente di deciso e che il passaggio dell'aliquota del 10% al 13% così come quella del 22% che arriverebbe al 25,2% non è scontato.
Si tratta di una patata bollente che alla vigilia delle elezioni europee passa di mano in mano ma che pende come una spada di Damocle sia sul futuro del Governo, sia, in maniera più pragmatica, su quello dei cittadini. Perché aumentare l'Iva significa aumentare le tasse.
I conti li ha fatti il Sole 24 Ore: se davvero il prossimo primo gennaio le aliquote Iva saranno rivista al rialzo su ogni famiglia graverà una nuova tassa di circa 538 euro.
I più tartassati saranno i liberi professionisti e gli impreditori lombardi e trentini su cui graverà un aumento rispettivamente di 658 e 654 euro.
Forte impatto anche in Emilia Romagna e Veneto mentre i meno tartassati sarebbero i calabresi e i campani che subirebbero una crescita di 2 punti percentuali di spesa sul bilancio famigliare.annuo.
A pagare di più l'Iva aumentata sarebbero poi coloro che vivono nelle grandi aree metropolitane, mentre si salverebbero gli abitanti dei piccoli centri sotto i 50.000 abitanti.
Questo è dovuto al diverso paniere di spesa delle famiglie.
Le aliquote Iva interessate al possibile rialzo, infatti, sono due. I beni e servizi che potrebbero essere interessate al passaggio dal 10 al 13% sono: carni, pesce, prodotti di pasticceria, ma anche legna da ardere; gas e luce a uso domestico, acquisto o restrutturazione di case, spettacoli teatrali e strutture alberghiere.
L'aliquota al 22% (con passaggio al 25,2%), invece, riguarda beni quali vino, abbigliamento, calzature, elettrodomestici, mobili, auto, servizi e prodotti per la cura personale e molto altro.
Si tratta di beni e servizi di uso quotidiano che il cui rincaro andrà soprattutto a gravare sulle famiglie - specie su quelle numerose - per cui si calcola un rincaro di circa 734 euro l'anno.
Secondo Istat, comunque, il presunto aumento dell'Iva avrebbe un effetto depressivo sui consumi solo dello 0,2%.
Le stime si basano su oltre 400 indici di aggregato di prodotto che concorrono mensilmente al calcolo dell'inflazione.
Bankitalia conferma quanto sostenuto da Istat ritenendo che l'effetto depressivo sui consumi sia più che altro su base ciclica e che non sia strettamente correlato all'aumento dell'Iva.
Confindustria, dal canto suo, auspica che - se aumento dell'Iva dovrà essere - per lo meno arrivi in corrispondenza con la riforma fiscale tanto ventilata (flat tax) che possa dare una spinta in avanti alla nostra economia.