Personaggi
August 16 2022
Quando si presentò alla stampa italiana, fece subito centro con uno slogan ruffiano, ma simpatico: «I’m sorry, I don’t speak italian but I speak Moschino». In sostanza, si scusava per non parlare la nostra lingua ma assicurava tutti di conoscere bene, cosa non da poco, la grammatica pop e carica di sottile ironia di Moschino.
Era il 2013 quando Jeremy Scott, designer yankee di Kansas City, arriva a Milano in qualità di direttore creativo del brand fondato da Franco Moschino nel 1983 e, dopo la sua morte avvenuta nel 1994, portato avanti dalla fidata assistente Rossella Jardini.
Un’eredità importante, un timone passato come da tradizione, da maestro ad allieva, e garantito nella sua tacita consequenzialità anche dal gruppo Aeffe, che nel 1999 ne rileva il marchio.
Poi arrivano gli anni Duemila, i verbi «cambiare» e «rinnovare» diventano gli imperativi del nuovo decennio e così si fa largo il nome di Jeremy Scott, il ragazzo che piace tanto a Karl Lagerfeld e, in quanto americano, non dispiace neppure alla potente Anna Wintour. Scott può vantare una collaborazione con Christian Louboutin e Stephen Jones e amicizie da super like con Björk, Madonna, Kylie Minogue e Britney Spears.
Dal quel 2013 sono passati dieci anni, non pochi per il momento ballerino delle attuali direzioni creative, e a celebrare l’anniversario ci ha pensato Assouline, la casa editrice francese famosa per le sue pubblicazioni patinate, che con Moschino (cofanetto con 360 pagine, 350 illustrazioni e copertina rigida, 250 euro) ne ripercorre la storia, collezione dopo collezione.
Si va così dalla passerella dedicata alla Barbie, che ironizza sulla mania americana della «silhouette bombastica» ritoccata all’infinito dal bisturi, a quelle dedicate ai fumetti tipo Looney Tunes e SpongeBob, per non parlare della collezione ispirata alla cultura del Burger con tanto di borse a forma di sacchetto di patatine fritte.
Certo, l’immaginario è quello americano, e se il fondatore Franco Moschino ironizzava sulle manie della nuova borghesia anni Ottanta facendo ricamare sull’aderente tubino nero il suo prezzo come fosse un vero decoro, oppure mandando in passerella un tailleur in perfetto stile Chanel chiamandolo Moschifo, Jeremy Scott usa i suoi codici di appartenenza che poi coincidono con quelli di una generazione, che nel frattempo si è globalizzata e frequenta gli emoticon, praticando un linguaggio segnico più infantile ma non per questo meno graffiante. Forse meno impegnato, sicuramente altrettanto giocoso.
«Mi piace pensare che la mia moda metta di buon umore, in fondo vestirsi può essere una forma di terapia» racconta a Panorama Jeremy Scott, forte del suo successo anche in termini di fatturato. Come dimostrano le dichiarazioni di Simone Badioli, ceo di Aeffe cui fanno capo i brand Alberta Ferretti, Philosophy di Lorenzo Serafini e Pollini: «Moschino è sicuramente il marchio che crea volumi maggiori, nel 2021 è incrementato del 20%, 258 milioni contro i 215 del 2020, generando il 75% dei ricavi complessivi».
Intanto, in questi giorni, all’interno del progetto di hub creativo sviluppato dal gruppo Hines è stato inaugurato il nuovo flagship store di Moschino nella milanesissima via della Spiga, al numero 26. Distribuito sui due piani del Palazzo Pertusati, edificio storico del 18esimo secolo, accoglie nei suoi 380 metri quadrati le collezioni ready-to-wear donna, uomo, bambino e accessori. «Mi sono ispirato alla ricca storia dell’Italia, al suo passato e all’opulenza decadente del suo design» racconta lo stilista a proposito del concept estetico, studiato insieme all’architetto Andrea Tognon.
Sorvoliamo sull’idea di «opulenza decandente del design italiano» per riferire di una risposta inaspettata e degna di nota di Scott a una domanda banale: «Cos’è cool? Per me vuol dire essere gentili. Con tutti». Buon anniversario Jeremy.