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September 30 2018
Come si fa trovare il proprio Sé nell’istante in cui con chiarezza percepiamo di essere un'ombra in perpetua metamorfosi? È l’interrogativo fatale di un romanzo senza punto interrogativo, Dove mi trovo: il romanzo di una scrittrice che ha avuto il coraggio di cambiare. Jhumpa Lahiri, nata a Londra da genitori bengalesi, newyorkese d’adozione e premio Pulitzer, ha abbracciato Roma e la lingua italiana non solo come si abbraccia un nuovo amore ma, In altre parole, come una chance per limare i pensieri fino all’essenza.
In Dove mi trovo quasi tutto accade - o non accade - sotto traccia. Non ha un nome la protagonista, non lo hanno le comparse in cui si imbatte, non lo ha neppure la città in cui lei si sente radicata, e che infatti sta per lasciare. Roma si svela nei dettagli marginali, la babele delle chiacchiere in piazza, una turista che scardina il bon ton addormentandosi al museo. È una delle poche volte nella sua lunga storia letteraria che Roma viene trattata con la confidenza del borgo di provincia, quello in cui si è scelto di vivere. Un paese piccolo dove ci si incontra per strada o al supermercato e che solo d’estate, vittima dello spopolamento, “deperisce come una persona anziana”.
Solitaria per scelta o per destino, ma anche per disciplina, la voce narrante si racconta in 46 brevi quadri di vita quotidiana, introdotti da una similitudine di Italo Svevo: “È il mutamento stesso che m’agita come il liquido in un vaso che scosso m’intorbida”. La sua solitudine è una compagnache non sparisce in presenza di altri, anzi sono proprio gli incontri ad amplificare la sensazione di stare sempre sul confine. Al radicamento nello spazio fisico del quartiere, alle consuetudini della giornata lavorativa e dei momenti di svago, si accompagna la tensione del movimento. Essere fermi eppure già da un’altra parte. A volte il tempo somiglia a una marea che si ritrae e poi d’improvviso ritorna, ma il luogo a cui ritorna non è mai lo stesso perché nel frattempo siamo noi a essere cambiati.
Con la delicatezza della grande scrittrice Jhumpa Lahiri traveste da storie marginali illuminanti squarci sulle relazioni umane: la “morfologia privata di una famiglia” colta negli oggetti di una casa violata dallo sguardo di una estranea, la platonica sbandata per un uomo sposato che lascia spegnere per conservarne l’affetto, lo sfacelo del matrimonio dentro il dialogo di un padre e una figlia, il doppio che si presenta dove meno te lo aspetti, in una donna amante del proprio amante, in una sconosciuta di spalle al semaforo, in una amica “che ha tutto ciò che mi manca” e però si accomoda sul suo divano come dall’analista.
Spesso quello che ci rassicura è anche quello che ci fa paura, o viceversa. La bellezza di una lapide, per esempio, il “gesto umano che fa scardinare tutto”. Nella coesistenza che viola il principio di non contraddizione sostano i pensieri di Jhumpa Lahiri, anche quando analizza il rapporto della protagonista con la madre e il padre. Un’inquietudine ancorata all’infanzia permea i quadri più dolorosi del libro. In quei momenti il luogo Dove mi trovo sembra inestricabilmente avvinto alle sbarre della complicata auto-rappresentazione come figlia, al senso di colpa per la cura discontinua della anziana madre, per il dialogo interrotto con un padre distante che avrebbe voluto che tutto rimanesse immobile: ma come si può chiedere al mare di non scatenarsi?
Mi manca l’ombra favorevole di qualcuno, dice la protagonista di fronte alla forza selvaggia del mare, archetipo della natura che dà e toglie in base al suo capriccio. La sua scissione è la zona grigia dell’anima, riminiscenza della selva oscura nel mezzo del cammin di nostra vita. Una vicenda antica come la storia dell’uomo riraccontata in chiave contemporanea da una grande scrittrice che ha scelto l’italiano per la “libertà di sentirsi imperfetta”, creando un canone che prima non c’era: morbido ed essenziale, sospeso, rarefatto, incantevole.
Jhumpa Lahiri
Dove mi trovo
Guanda
170 pp., 15 euro