Dal Mondo
November 03 2023
Hezbollah non morde. Il tanto temuto discorso pubblico di Hassan Nasrallah, storico leader del «partito di Dio» libanese, non modifica lo status quo della crisi israelo-palestinese e non contribuisce a gettare benzina sul fuoco, nell’incendio che sta comunque divampando in Medio Oriente. Il temuto annuncio di una partecipazione diretta delle agguerrite milizie che rispondono al gruppo armato che controlla il Sud del Libano, non c’è stato. E dunque, in estrema sintesi, Hezbollah si dice sì solidale con Hamas, ma non è né intende essere coinvolto direttamente nella guerra che la leadership di Gaza ha scatenato contro Israele lo scorso 7 ottobre.
Se pure Nasrallah definisce l’attacco di Hamas un’azione «saggia, giusta e coraggiosa», si guarda bene dal dipingere questa guerra come una causa comune da combattere, e ci tiene a puntualizzare che le responsabilità sono confinate alla leadership della Striscia di Gaza: «L’operazione di Hamas in Israele è il risultato di una decisione palestinese al 100%» afferma il leader, prendendo le distanze da un contesto già pericoloso ed evitando il duplice rischio di mandare al massacro i suoi uomini, e di perdere il sostegno della popolazione libanese con l’apertura di un pericoloso secondo fronte.
Hassan Nasrallah, religioso sciita alla guida di Hezbollah dal 1992, ha svolto un ruolo chiave nel trasformare il «partito di Dio» in una forza politica, oltre che militare. Ha stretti legami con l'Iran e il suo leader supremo, l'ayatollah Ali Khamenei, che risalgono ai primi anni Ottanta, quando il primo leader supremo dell’Iran, l'ayatollah Ruhollah Khomeini, lo nominò suo rappresentante personale in Libano. Ma, per quanto venerato da Hezbollah e seppur ancora ben presente nella vita politica del Libano (tiene discorsi televisivi quasi ogni settimana), Nasrallah non controlla il governo di Beirut né può parlare a nome di un popolo intero.
Il leader di Hezbollah, e più in generale la leadership del partito estremista libanese, sono ben consapevoli sia della soverchiante forza militare di Israele – che non ha peraltro escluso di riversare la propria furia vendicativa anche contro il confine a nord, in risposta agli attacchi dimostrativi che nei giorni scorsi hanno visto Hezbollah protagonista di lanci di razzi contro lo Stato israeliano – sia dell’inopportunità del momento storico.
Il Libano, infatti, versa in una crisi economica spaventosa ed Hezbollah non solo è uscito politicamente ridimensionato dalle ultime elezioni, ma la sua ala militare è stata pesantemente indebolita a seguito della lunga guerra civile siriana (dove era parte in causa a fianco di Damasco), e dopo gli innumerevoli attacchi mirati da parte israeliana che, nell’ottica della deterrenza, da anni hanno progressivamente dimezzato l’arsenale bellico dei paramilitari libanesi.
«Mi rivolgo a tutti i leader dei paesi petroliferi arabi: non date più petrolio a Israele. Non vi chiediamo di mandare i soldati, ma di avere il minimo di onore e di cessare di inviare petrolio a Israele». La sintesi della debolezza attuale di Hezbollah è tutta in questa frase, pronunciata dal leader nel discorso pubblico odierno.
Come noto, Regno Unito e Stati Uniti considerano l’intero gruppo un’organizzazione terroristica, mentre l’Unione europea ha inserito soltanto il braccio armato di Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroristiche, ma non il partito politico. Così vale per i Paesi arabi del Golfo e per la stessa Lega Araba. Un’ambiguità che permette ancora al «partito di Dio» di mantenere un potere negoziale e una credibilità nel contesto internazionale, e segnatamente nel Mediterraneo allargato, che in particolare l’Iran ha sfruttato e continua a sfruttare in funzione anti-israeliana.
Intanto, dietro il paravento della diplomazia, Hezbollah alimenta lucrosi traffici di armi, droga e di influenze in tutto il Medio Oriente e non solo, grazie al doppio canale della corruzione e dell’assistenzialismo sociale nelle aree più depresse del Paese dei Cedri. Nelle roccaforti del Libano meridionale, il gruppo mantiene infatti migliaia di combattenti e un enorme arsenale missilistico: si stima che Hezbollah disponga di almeno 50 mila miliziani e oltre 100 mila razzi per colpire i suoi nemici.
Grazie anche a questa minaccia, Hezbollah continua a mantenere alta la tensione e a opporsi alla presenza di Israele nelle aree di confine contese: nel 2006, quando scoppiò una vera e propria guerra tra Hezbollah e Israele, questa fu innescata proprio da Hezbollah, che effettuò un mortale raid transfrontaliero in seguito al quale le truppe israeliane invasero il Libano meridionale per ricacciare la minaccia oltreconfine. Tuttavia, Hezbollah non ha desistito ed è sopravvissuto alla risposta israeliana, continuando a reclutare nuovi combattenti e dotandosi di armi nuove e migliori, grazie all’aiuto di Teheran.
Del resto, il gruppo è stato istituito all’inizio degli anni Ottanta dalla potenza sciita più dominante della regione, l'Iran, proprio per opporsi a Israele. All’epoca, le forze israeliane avevano occupato il Libano meridionale, durante la guerra civile del Paese. Da allora, la presenza di Hezbollah nel multiconfessionale Libano si configura come la sola organizzazione musulmana sciita politicamente influente grazie al fatto di essere la forza armata più potente del Libano.
«Non è quello che ti aspetteresti da un’organizzazione politica, ma è esattamente quello che ti aspetteresti da un’organizzazione terroristica». È con queste parole che l’intelligence americana riassume il ruolo ambiguo che Hezbollah gioca da sempre nella regione mediorientale.
Da quando, nel 1992, ha partecipato per la prima volta alle elezioni nazionali, il «partito di Dio» è diventato anche una presenza politica centrale e il suo braccio armato un vero e proprio esercito di confine, che si è distinto per aver effettuato attacchi mortali non solo contro le forze israeliane, ma anche statunitensi. Quando Israele si è ritirata dal Libano nel 2000, Hezbollah si è preso il merito di averlo cacciato e da allora ha sfruttato questo fatto come un suo successo personale, grazie al quale ha potuto continuare a fare proselitismo. Così si arriva sino a oggi, quando ormai è chiaro che Hezbollah si è fatto strumento delle politiche iraniane nella regione. Il che, allargando il contesto, può essere letto come un segnale «positivo»: Hamas non ha alleati disposti a morire per la causa palestinese, la sua «chiamata alle armi» contro Israele è caduta nel vuoto ed è dunque internazionalmente isolata.
L’assalto del 7 ottobre è stata una mossa suicida da parte della leadership palestinese, che ha fallito nel calcolare la risposta dei Paesi arabi, indignati come il resto del mondo dalla ferocia con cui un attacco che doveva essere di stampo militare si è invece configurato come un barbaro atto terroristico in stile Isis. La lunga esperienza di Hassan Nasrallah lo ha di conseguenza portato a mitigare il messaggio con cui oggi ha descritto la linea del partito: Hezbollah è certamente schierato contro Israele, ma guarda anzitutto alla propria sopravvivenza. «Abbiamo bisogno ancora di un po’ di tempo per assestare il colpo di grazia al nemico» detto in chiusura il leader sciita, riconoscendo la propria debolezza. «È un duello che non si vince con un knock out, ma ai punti». Il che, se non è una notizia positiva, rimanda a data da destinarsi una guerra che coinvolga anche il Libano.