João Guimarães Rosa, 'Tutameia. Terze storie' - La recensione

Ritmo incalzante, un linguaggio poetico rude e ribelle alle regole della sintassi, aforismi che abbagliano come piccoli haiku. Esce finalmente in traduzione italiana Tutameia. Terze storie, antologia di racconti dalla trama complessa come un pizzo lavorato a mano, pubblicata originariamente nel 1967. Il suo demiurgo è il James Joyce dell'America Latina, João Guimarães Rosa, nome di spicco nella letteratura brasiliana del Novecento.

Sfondo dei racconti di Tutameia è la dimensione fisica ed esistenziale del sertão minerario, l'arido entroterra del nord-est brasiliano che confina a sud con la patria dello scrittore, il Minas Gerais. Stato dell'anima, prigione senza sbarre, deserto di spazi opprimenti, il Grande sertão è un ombelico del mondo magico e consolatorio, capace di sprigionare mistiche trascendenze linguistiche. Così si intitolava l'unico romanzo di Guimarães Rosa (ricca invece la sua produzione nel format del racconto breve). Pubblicato nel 1956, divenne in breve un classico della narrativa sperimentale mondiale - un po' Don Chisciotte, un po' Ulisse.

Gli echi del sertão si riverberano in Tutameia con una gamma infinita di figurazioni linguistiche visionarie e bizzarre: neologismi, allitterazioni, onomatopee, fulminanti metafore, forme gergali tra il comico e il sublime. Musica di parole nuove da ipolastico a confusorio, allucimonio e montagnitanza, fratenerezza e tristoiose, disquiete e inaudaci... Guimarães Rosa spezza la routine dei vocabolari, sentenziano i traduttori Virginia Caporali e Roberto Francavilla nella postilla finale, recupera parole arcaiche e desuete, sdogana infantilismi balbuzie chimere, compone e decompone, decontestualizza le parole, ontologizza significati. In sostanza: "tradurre Tutameia è una fatica spropositata".

Grazie anche all'abilità dei traduttori, l'ansia di liberazione dalla gabbia del linguaggio produce un lessico arcano e selvaggio. Nella tensione dinamica della forma-racconto si delineano bozzetti di un mondo primitivo insieme diabolico e innocente, la cui stravaganza è figlia delle leggi del sogno. Come un sognatore che scruta il proprio risveglio, tutto è simbolo nei racconti di Guimarães Rosa. "A me stesso, sono anonimo" dice infatti il protagonista di Se io sarei personaggio. "La parte più profonda dei miei pensieri non capisce le mie parole". Sembra di sentire Fernando Pessoa, campione del paradosso e geniale interprete di una visione ossimorica della vita: l'universo è pieno di silenzi fragorosi.

Storie d'amore e orrore, desiderio e colpa, storie di rancori e pulsioni oscure, di fantasmi e prigionieri, ombre e proiezioni di immagini, fuggitivi e assassini nel groviglio di boscaglie e colline, piccoli paesi, fazendas e mandriani. Il realismo magico di Tutameia mi ha fatto pensare alla Sardegna, la cui letteratura è figlia del medesimo senso di isolamento e predestinazione. L'incontro-scontro fra bellezza e durezza della vita è la radice arcaica che l'aedo trasforma in epica, mito, leggenda usando il linguaggio dell'affetto: sorta di grammelot preverbale dalla matrice fisica e allusiva capace di comunicare, dicono i traduttori, "invadendo la sfera sensoriale di chi legge".

Come il sole, colorandosi di rosso sangue, muore ogni giorno per tutti, così questo libro lascia una traccia dell'eterno andirivieni di "camminanti volti, reiteranti", sospeso su quel confine tra normalità e follia che Cervantes rese universalmente vischioso. La vita senza scappatoie, da parte contro parte, con le antitetiche facce di cui si compone la condizione umana.

João Guimarães Rosa
Tutameia. Terze storie
Del Vecchio Editore
288 pp., 16 euro

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