Dal Mondo
November 08 2024
La sconfitta di Kamala Harris è stata clamorosa. D’altronde, qui su Panorama.it , avevamo spiegato già in agosto come la candidata dem scontasse delle debolezze strutturali. Il punto è che, negli ultimissimi giorni, si è fatta strada la tesi secondo cui la vicepresidente avrebbe perso a causa di un elettorato fondamentalmente sessista, che non avrebbe voluto una donna come inquilina della Casa Bianca. C’è da chiedersi se le cose stiano veramente così. Sarebbe davvero questa la causa della debacle elettorale della Harris? A ben vedere, il sessismo non c’entra nulla. La vicepresidente ha dovuto infatti fare i conti sia con dei problemi strutturali sia con alcuni errori marchiani commessi durante la campagna. Iniziamo dai primi.
Come noto, la Harris si è ritrovata catapultata alla candidatura presidenziale all’improvviso, bypassando le primarie e, soprattutto, a soli tre mesi dal voto. È dunque chiaro che la sua corsa elettorale, totalmente priva di investitura popolare, partiva già in salita. Non solo. La Harris è scesa in campo, mentre era vice di un presidente in carica, Joe Biden, profondamente impopolare a causa di vari problemi: inflazione, immigrazione clandestina e mancanza di leadership. In tal senso, la diretta interessata è incorsa nella “maledizione di Hubert Humphrey”: il candidato dem del 1968 che, vicepresidente di Lyndon Johnson, si ritrovò zavorrato dall’impopolarità scontata da quest’ultimo a causa della guerra in Vietnam.
Più in generale, la Harris ha dovuto fare i conti con i nodi che, ormai da anni, perseguitano il Partito democratico americano. Questo schieramento continua a rimanere sotto il tallone di un establishment che, da Barack Obama ai Clinton passando per Nancy Pelosi, ha sistematicamente impedito una franca e fisiologica dialettica interna, imponendo de facto scelte dall’alto. Che il clima in seno all’Asinello fosse pesante era d’altronde stato rilevato anche da The Hill alcuni giorni prima del voto. Al netto dell’unità di facciata sbandierata ai quattro venti, vari settori del partito non amavano la Harris. Lo stesso Obama non era convinto della sua candidatura. Inoltre, i presunti astri nascenti di questo schieramento – Josh Shapiro, Gavin Newsom e Gretchen Whitmer – non avevano un vero interesse nella vittoria della vicepresidente: un simile scenario avrebbe infatti probabilmente azzoppato i loro progetti di candidarsi alla nomination presidenziale dem del 2028. Questo vuol dire che la resa dei conti interna, esplosa nelle scorse 48 ore, covava già da tempo, se non da anni. L’establishment ha continuato a funzionare da tappo. E la pressione è aumentata sempre di più, fin quando il tappo è stato fatto saltare dalla debacle della Harris.
Ma la vicepresidente ha anche commesso degli errori contingenti. Innanzitutto, ha totalmente sbagliato nella scelta del vice, Tim Walz. Non solo costui non l’ha aiutata nell’attrarre il voto dei colletti blu della Rust Belt ma, con le sue frequenti gaffe, ha finito con lo zavorrarla, mettendola in imbarazzo. Inoltre, optando per Walz, la Harris ha spostato il ticket troppo a sinistra, alimentando, anziché disinnescare, le accuse dei repubblicani che la dipingevano come una marxista. Un secondo errore della vicepresidente è stato quello di aver evitato di rilasciare interviste giornalistiche per tutto il primo mese di campagna elettorale. Questo ha insospettito gli elettori indecisi e le ha messo contro quello stesso establishment mediatico che è tradizionalmente favorevole ai dem. Anche quando poi ha iniziato a farsi intervistare, lo ha fatto sempre in ambienti amichevoli o comunque protetti, scegliendo formati preregistrati. Un terzo errore è stato quello di un’eccessiva fumosità nella sua proposta programmatica, oltre al fatto di non essere stata capace di distanziarsi adeguatamente da Biden.
Tutto questo, senza trascurare che gli sponsor della candidata dem ci hanno messo del loro. Obama ha irritato i maschi afroamericani, accusandoli di sessismo per la loro freddezza verso la vicepresidente. La Whitmer ha indispettito i cattolici, facendosi un video in cui, mentre indossava un cappellino con scritto “Harris-Walz”, scimmiottava l’eucarestia. Biden, a pochi giorni dal voto, ha creato un polverone, bollando i sostenitori di Trump come “spazzatura”. Tutti episodi, questi, che hanno significativamente azzoppato la vicepresidente. Errori talmente grossolani che c'è da chiedersi se non siano stati fatti apposta. Sì perché il forte sospetto è che l’establishment abbia deciso di puntare sulla vicepresidente semplicemente per mandarla elettoralmente a sbattere, in attesa che, nel 2028, i presunti astri nascenti scendano in campo.
Infine, un ultimo rilevante problema è che il Partito democratico ha, per l’ennesima volta, dato per scontato il voto di alcune categorie di elettori: categorie che invece, sentendosi tradite e strumentalizzate, gli hanno alla fine voltato le spalle. Non a caso, Trump ha guadagnato terreno tra blocchi elettorali storicamente dem: colletti blu, ispanici, afroamericani e arabo-americani, costruendo una vasta coalizione interclassista e interrazziale. Il Partito democratico è stato invece percepito come elitario e fuori dal mondo, preda di parole d’ordine ideologiche senza un fondamento nella realtà. Negli ultimi anni, la sua ala “operaia” è stata sistematicamente sacrificata a vantaggio di quella “californiana”. E questo spiega in gran parte i risultati delle presidenziali di martedì.
Adesso starà al Partito democratico capire come affrontare la traversata nel deserto che gli si sta aprendo dinanzi. Le possibilità sono due. Può continuare a inseguire l’ideologia liberal della West Coast, perdendosi in battaglie astruse e proseguendo nella demonizzazione degli avversari politici. Oppure può finalmente archiviare l’establishment fallimentare degli Obama e dei Clinton, avviando una dialettica interna che sia in grado di portare a un vero rinnovamento della propria classe dirigente. È chiaro che la strada da seguire dovrebbe essere la seconda. Il punto è che, visto come ormai si è strutturata la situazione interna, è probabile che a essere scelta sarà la prima. Uno scenario, questo, che potrebbe regalare ai repubblicani la Casa Bianca per i prossimi dodici anni.