​Kamala Harris
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Kamala Harris, un pessimo affare per il mondo

Salutata da buona parte dei media come una presidente che potrebbe risolvere molte tensioni globali, in realtà la candidata dem americana ha già dimostrato - da vice di Joe Biden - di non saper maneggiare la politica internazionale. Fallendo su vari fronti: dal Messico degli immigrati, all’Afghanistan abbandonato, al Medio Oriente...

Nel coro monocorde di santificazioni mediatiche a favore di Kamala Harris, si è fatta spazio la narrazione secondo cui una sua eventuale amministrazione rappresenterebbe una buona notizia sul fronte internazionale. C’è chi dice che, da presidente, la candidata del partito democratico alle elezioni di novembre rafforzerebbe le relazioni transatlantiche, e chi sostiene che sarebbe il profilo giusto per risolvere la crisi di Gaza. Donald Trump, di contro, viene dipinto come un «amico» di Vladimir Putin e viene accusato di essere la causa della destabilizzazione in Medio Oriente. A ben vedere, si tratta di una narrazione che fa acqua da tutte le parti. Cominciamo col ricordare che, da vicepresidente, la Harris si è occupata molto poco di politica internazionale. E per quel che ha fatto non ha particolarmente brillato. Nel marzo 2021, Joe Biden le affidò il compito di affrontare le cause strutturali dei flussi migratori, lavorando diplomaticamente con i Paesi dell’America Centrale. Una missione che la diretta interessata ha fallito, visto che, durante l’amministrazione Biden-Harris, è stato raggiunto il record storico di arrivi di immigrati irregolari al confine con il Messico.

Era inoltre giugno 2022, quando Reuters riportò come, da quando i dem erano tornati alla Casa Bianca, l’influenza statunitense sull’America Latina fosse notevolmente diminuita. Non dimentichiamo che, proprio nel 2022, il Nicaragua ha concesso alla Russia di schierare i militari sul suo territorio. E che, l’anno dopo, l’attuale presidente brasiliano, Lula da Silva, ha rafforzato significativamente i legami di Brasilia con Pechino. Ma non è finita qui. Nel novembre 2021, la Harris fu inviata a Parigi per prendere parte a un summit sulla Libia: una partecipazione, la sua, che si rivelò del tutto impalpabile. Tanto che quel viaggio è ricordato solo perché la diretta interessata ne approfittò per comprarsi 500 dollari di pentole in un negozio della capitale francese. Ma la Harris è anche corresponsabile del disastroso ritiro dall’Afghanistan, avvenuto nell’agosto 2021. Era stata proprio lei, il 25 aprile di quell’anno, a dire di essere stata «l’ultima persona a lasciare la stanza», quando Biden, qualche giorno prima, aveva deciso di abbandonare il Paese. La gestione delle operazioni si rivelò tragicamente fallimentare: 13 militari statunitensi uccisi da un attentato dell’Isis-K, la credibilità di Washington crollata agli occhi del Sud Globale, la capacità di deterrenza americana entrata in crisi. Non a caso, poco dopo la caduta di Kabul, la Russia intensificò l’ammassamento di truppe al confine ucraino, mentre la Cina iniziò a violare lo spazio aereo taiwanese con i propri caccia.

Ed è proprio la questione della deterrenza che ci porta al conflitto russo-ucraino. Al di là del disastro afghano, l’amministrazione Biden-Harris non ha fatto nulla per cercare di rafforzare la capacità dissuasiva statunitense nei confronti di Mosca. A maggio 2021, revocò le sanzioni al gasdotto Nord Stream 2, che erano state imposte da Trump. Inoltre, mentre Putin ammassava le sue truppe, Biden prima lasciò intendere che avrebbe considerato tollerabile una «incursione minore», poi, il 14 febbraio 2022, ritirò il personale diplomatico americano da Kiev. Si arrivò così al 20 febbraio di quell’anno, quando la Harris disse che la strategia statunitense di deterrenza stava funzionando: eppure, appena quattro giorni dopo, Putin iniziò l’invasione dell’Ucraina. Di contro, Trump, nonostante sia dipinto da una certa vulgata come filorusso, non solo impose sanzioni al Nord Stream 2 nel 2019, ma irritò anche Mosca, ritirandosi dall’accordo sul nucleare con l’Iran nel 2018. Fu inoltre sempre lui a fornire i missili Javelin all’Ucraina e a chiudere il consolato russo di Seattle, espellendo vari diplomatici di Mosca.

«Non sono ottimista sul fatto che un’amministrazione Harris risolverà i due difetti fondamentali dell’amministrazione Biden-Harris nella loro politica ucraina» dice a Panorama Dan Negrea, che fu rappresentante speciale per gli affari commerciali del Dipartimento di Stato americano ai tempi dell’amministrazione Trump. «Primo, non hanno un piano per porre fine alla guerra. Secondo, sono timidi nell’aiutare l’Ucraina: le forniscono l’aiuto sufficiente per non perdere, ma non abbastanza per vincere». E attenzione anche al Medio Oriente. Durante il dibattito del 10 settembre, la vicepresidente ha accusato l’avversario di «ammirare i dittatori». Tuttavia è stata l’amministrazione Biden-Harris a revocare la politica della «massima pressione» sull’Iran (non certo un regime democratico), che era invece stata adottata da Trump e dal suo segretario di Stato, Mike Pompeo. Nel 2021, l’attuale Casa Bianca tolse gli Huthi dalla lista delle organizzazioni terroristiche e cercò anche di rilanciare il controverso accordo sul nucleare iraniano: una linea di appeasement che, oltre a isolare Israele, ha spinto i sauditi tra le braccia di russi e cinesi. Gli ayatollah, dal canto loro, anziché avvicinarsi a Washington, hanno rafforzato i loro rapporti con Pechino e Mosca, continuando a foraggiare il loro pericoloso network terroristico regionale, che va da Hamas a Hezbollah, passando per gli stessi Huthi.

Nonostante abbiano cercato di mediare la normalizzazione dei rapporti tra Gerusalemme e Riad, Biden e la Harris hanno messo de facto in crisi la logica degli Accordi di Abramo con cui Trump aveva stabilizzato il Medio Oriente nel 2020: quegli accordi promossero infatti l’avvicinamento tra israeliani e Paesi arabi filo-sauditi, facendo leva sul loro comune timore verso le ambizioni nucleari di Teheran. La distensione promossa dall’attuale amministrazione americana verso il regime khomeinista ha quindi fatto crollare tutto. «Un’amministrazione Harris continuerebbe nel suo appeasement verso l’Iran invece di avere un atteggiamento più duro. Si rifiutano di collegare i puntini tra le azioni di Hamas, Hezbollah e Huthi, tutte organizzazioni terroristiche, e i loro padroni a Teheran», puntualizza Negrea. «Penso che da presidente, la Harris si farebbe guidare dalla burocrazia del Dipartimento di Stato, che è morbida con l’Iran e anti-israeliana» aggiunge Mary Kissel, l’ex senior advisor di Mike Pompeo (segretario di Stato americano tra il 2018 e il 2021 sotto la presidenza Trump).

D’altronde, uno dei nodi che ha impedito per lungo tempo a Israele di accettare un accordo per il cessate il fuoco a Gaza è costituito proprio dal dossier iraniano: lo Stato ebraico non si fida infatti dell’atteggiamento blando, tenuto dall’attuale Casa Bianca verso Teheran. Una Casa Bianca che, al netto di qualche sanzione e qualche condanna morale, si è finora ben guardata dal reintrodurre la politica della «massima pressione» sull’Iran. La Harris, durante il dibattito televisivo del 10 settembre, ha detto di auspicare fermamente un’intesa su cessate il fuoco e ostaggi a Gaza: peccato che l’amministrazione di cui fa parte abbia cercato invano di mediarla per mesi. E, come detto, il problema principale risiede proprio nell’atteggiamento soft di Biden e della sua vice nei confronti degli ayatollah, che, oltre a essere i principali finanziatori di Hamas, hanno anche fornito droni a Mosca durante l’invasione dell’Ucraina. Insomma, sia sul fronte ucraino che mediorientale sarà possibile riportare stabilità soltanto nel momento in cui Washington si rivelerà in grado di ripristinare la propria capacità di deterrenza. Visti i suoi risultati come vicepresidente, non siamo sicuri che la Harris sia il profilo migliore per conseguire questo cruciale obiettivo.

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