Kamala Harris può fidarsi realmente di Obama?

Certo, la Convention democratica di Chicago è stata tutto uno sfoggio di unità attorno a Kamala Harris. Eppure, guardando tra le righe, qualche dubbio su tutta questa ostentazione di compattezza onestamente viene. In particolare per quanto riguarda il sostegno, garantito ufficialmente da Barack Obama, alla candidata dem. Per capire ciò a cui ci stiamo riferendo, è utile prendere in considerazione un episodio, apparentemente insignificante, verificatosi di recente.

Venerdì scorso, il giorno dopo cioè la fine della Convention, il governatore della California, Gavin Newsom, si è fatto intervistare a Pod Save America: un podcast condotto da alcuni ex consiglieri di Obama, come Jon Favreau, Jon Lovett, Dan Pfeiffer, e Tommy Vietor. Durante la puntata, il governatore ha scherzato con i suoi interlocutori, facendo ironia sul metodo (non esattamente democratico) con cui la Harris ha ottenuto la nomination presidenziale dem, a seguito del siluramento di Joe Biden. “Abbiamo attraversato un processo molto aperto, un processo molto inclusivo. È stato un processo dal basso verso l'alto, non so se lo sapete. Questo è ciò che mi è stato detto di dire”, ha dichiarato Newsom, ridendo, tra l’ilarità generale. Il governatore ha anche ironizzato sulla sostituzione rapidissima di Biden con la Harris.

Ora, è certamente possibile che si trattasse semplicemente di innocenti battute scherzose. Tuttavia, se fai simili commenti ironici subito dopo la conclusione della Convention, qualche dubbio rischi di suscitarlo. Non solo. Metti anche il tuo partito nella difficile situazione di prestare il fianco all’avversario. Non a caso, il portavoce della campagna di Donald Trump, Steven Cheung, ha subito colto la palla al balzo. “Gavin Newsom sta dicendo ad alta voce che c’è stato un golpe antidemocratico”, ha tuonato. A rendere il tutto ancora più strano sta il fatto che il governatore si sia lasciato andare a questi commenti durante un podcast condotto da vari ex consiglieri di Obama. Figure che, a luglio, avevano contribuito a spingere Biden a fare un passo indietro, tanto da irritare, secondo Politico, lo staff elettorale del presidente. A tutti questi elementi, ne vanno aggiunti altri. A premere da mesi e mesi a favore del siluramento dello stesso Biden è stato anche un altro ex advisor di Obama, come David Axelrod. Ebbene, proprio Axelrod, nel giugno 2022, disse che Newsom sarebbe stato un ottimo sostituto di Biden, qualora quest’ultimo si fosse ritirato. “Se il presidente non si candidasse, è difficile immaginare che Newsom non sarebbe fortemente tentato di partecipare alla corsa”, affermò, per poi aggiungere: “Newsom è giovane e politicamente in gamba, il che potrebbe essere proprio ciò che il mercato cercherà dopo Biden”. Axelrod tornò alla carica nel febbraio 2023. “Il nome di Gavin Newsom sarà in cima a qualsiasi gruppo di potenziali candidati, e giustamente”, affermò, definendo il governatore “brillante” e “carismatico”.

Ed è qui che dobbiamo aggiungere un ulteriore elemento. A partire dal 2023, Axelrod ha sparato letteralmente a palle incatenate contro la ricandidatura di Biden: una serie di critiche, le sue, che si sono intensificate dopo il disastroso dibattito televisivo del 27 giugno scorso. D’altronde, a cavallo tra giugno e luglio, anche altri esponenti della galassia obamiana si sono spesi a favore del siluramento di Biden: si pensi solo a Van Jones e, come abbiamo già visto, agli stessi conduttori di Pod Save America. Ricordiamo del resto che, a giugno 2023, Obama ebbe un pranzo con l’attuale presidente alla Casa Bianca. Nell’occasione, pur ribadendo ufficialmente il sostegno alla sua candidatura, gli fece presente la difficoltà all’orizzonte che un nuovo duello elettorale con Trump avrebbe comportato. All’epoca, ci fu chi lesse quell’incontro come un modo gentile per convincere Biden a mollare. Sarà un caso, ma il cannoneggiamento di Axelrod partì non molto tempo dopo. Che a luglio scorso Obama si sia speso in prima persona, per spingere l’inquilino della Casa Bianca ad abbandonare la corsa elettorale, non è certo un mistero. Ma, molto probabilmente, le sue pressioni erano iniziate già da mesi. Pressioni che l’ex presidente dem aveva condotto indirettamente, mandando avanti gli esponenti della sua cerchia storica, a partire da Axelrod.

E arriviamo quindi all’addio elettorale di Biden. Neanche ventiquattr’ore dopo, proprio Axelrod intervenne, invocando un “processo aperto” per la sua sostituzione. Un processo che poi non ebbe luogo, visto che la Harris prese quasi meccanicamente il posto del presidente, bypassando ogni possibile ricorso alla volontà popolare. Ebbene, arrivati a quel punto, molti big dem si schierarono in fretta con la vicepresidente. Eppure Obama rimase in silenzio parecchi giorni. Tanto che il suo endorsement arrivò piuttosto in ritardo. E’ quindi molto verosimile ipotizzare che l’ex presidente dem non volesse la Harris come candidata sostitutiva: d’altronde, il suo indice di gradimento come numero due della Casa Bianca non era mai stato particolarmente brillante. Un fattore, questo, che Obama certo non poteva ignorare. Al contrario, i frequenti elogi di Axelrod lasciano intendere che l’ex presidente dem puntasse proprio su Newsom, che però si era ufficialmente chiamato fuori da un’eventuale discesa in campo. La domanda è: perché? Un’ipotesi è che non abbia voluto bruciarsi, entrando in partita a corsa avviata. Un’altra ipotesi è che, nei rapporti di potere interni al Comitato nazionale democratico, la Harris si sia rivelata alla fine più forte, fino a imporsi. Questo non è dato saperlo. Resta però che Obama non era convinto della Harris.

Ecco che allora emerge un dubbio. Non è che l’ex presidente dem, nonostante il sostegno ferreo garantito a livello ufficiale, ha intenzione di ricorrere alla strategia adottata con Biden? Dire, cioè, una cosa in pubblico e fare esattamente l’opposto dietro le quinte, mandando avanti i suoi storici consiglieri? Magari le parole pronunciate da Newsom a Pod Save America erano null’altro che uno scherzo innocente. Però ricordavano dinamiche già viste. E hanno fatto sì che la campagna della Harris prestasse il fianco alle critiche di Trump. Quindi quelle parole un danno lo hanno comunque fatto. Ingenuità o dolo? Vallo a sapere! Magari ci sbaglieremo, per carità. Ma, se fossimo in Kamala Harris, ci asterremmo dal nutrire una cieca fiducia nei confronti di Obama.

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