Dal Mondo
May 10 2023
Le elezioni in Turchia di domenica 14 maggio rappresentano il test più delicato per la Turchia contemporanea. E non soltanto perché il 2023 è un anno storico – il centenario dalla fondazione della moderna Repubblica turca - ma perché le urne diranno tutto quel che c’è da sapere sulla direzione politica che Ankara si appresta a prendere, a vent’anni dall’ascesa al potere personale di Recep Tayyip Erdogan, che oggi insegue il terzo mandato da presidente.
Il 2023 segna anche il decennale delle furiose proteste di piazza a Gezi Park, Istanbul, il momento certamente più critico per il governo prima che si verificassero il tentato golpe del luglio 2016 e la guerra al confine siriano contro curdi e jihadisti.
Erdogan si presenta dunque a questo appuntamento con la storia forte del sostegno di milioni di elettori – l’ultimo comizio a Istanbul ha visto la partecipazione di una folla oceanica, almeno 1,7 milioni di persone gli hanno reso omaggio – ma funestato dal terribile sisma che lo scorso 6 febbraio ha fatto decine di migliaia di vittime e che ha fatto capire per la prima volta quanto diffuso sia il sistema corruttivo e clientelare che ruota intorno al presidente, con la lobby dei costruttori edili sul banco degli imputati per i crolli inaspettati.
Ma soprattutto è forse la prima volta che a guidare le opposizioni c’è una leaderhip riconosciuta, quella che si salda intorno a Kemal Kilicdaroglu, settantaquattro anni di cui quindici spesi come capo del Partito popolare repubblicano (CHP). Divenuto ormai il principale partito anti-Erdogan, il CHP rappresenta l’eredità laica del padre della patria Mustafa Kemal Ataturk, e proprio intorno ai kemalisti si sono via via saldate tutte le forze politiche che si oppongono allo strapotere dell’AKP, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo del presidente.
A inizio marzo, infatti, i sei principali partiti dell’opposizione turca si sono riuniti in quella che è stata definita la «Tavola dei Sei», da cui Kilicdaroglu è emerso come unico candidato efficace per sfidare Erdogan. Si tratta di un dato importante, soprattutto perché la «Tavola dei Sei» rappresenta una coalizione di partiti estremamente variegata, che va dal centrosinistra alla destra nazionalista, e che vede l’appoggio esterno dei curdi.
Uniti attorno ad alcune riforme di principio come l’abolizione del presidenzialismo, è però il desiderio di scalzare il «Sultano» dal suo trono ad aver radunato le voci di protesta sotto l’ombrello di Kilicdaroglu, figura sempre più popolare in Turchia ma anche poco carismatica (fatto che ha destato più di un dubbio sulla sua idoneità, alla vigilia del voto).
Rinomato unanimemente per l’onestà intellettuale e la sobrietà nei comportamenti, nel corso degli anni Kilicdaroglu ha saputo costruire un percorso credibile, che ha visto anche alcuni importanti successi elettorali: nel 2009 fu candidato alla poltrona di sindaco di Istanbul, la principale città turca nonché roccaforte di Erdogan (di cui il presidente è stato sindaco a metà degli anni Novanta). Perse, ma ottenne un notevole 37%, con il quale i kemalisti poterono almeno festeggiare il miglior risultato da decenni nella capitale economica della Turchia.
Passo dopo passo, l’elettorato borghese e urbano ha visto in lui un’alternativa concreta alla corruzione dilagante nel Paese, e così il CHP ha ottenuto il 25% alle politiche del 2011, mentre nel 2015 un patto di desistenza siglato con il partito curdo HDP ha permesso all’opposizione di scippare all’AKP la maggioranza assoluta dopo dodici anni. Schema ripetuto ancora alle amministrative del 2019, quando un nuovo patto strategico con i curdi ha garantito al partito di Kilicdaroglu di conquistare Istanbul e Ankara.
«L’antitesi di Erdogan», come lo ha definito il New York Times, incarna dunque il volto migliore e più moderato della politica turca: nato nel 1948, a Nazımiye nella provincia orientale di Tunceli, è il quarto di sette figli nati da una coppia di funzionari pubblici. Lo stesso Kilicdaroglu ha seguito le loro orme, facendo carriera come funzionario di Stato all’interno del Ministero dell’Economia e delle Finanze, all’interno del quale è divenuto vicedirettore del Dipartimento del Fisco (l’equivalente della nostra Agenzia delle Entrate).
Occupandosi di fondi pubblici ha potuto osservare da vicino quanto in profondità si spingesse la corruzione all’interno degli apparati statali, e questo è stato decisivo per la sua decisione di candidarsi ad «anti-Erdogan». Come ha scritto Deutsche Welle, «in una stanza piena di documenti, Kilicdaroglu sa identificare quelli falsi da quelli veri». Queste qualità gli sono valse nel tempo la fiducia di un numero sempre crescente di seguaci, anche se il suo Dna da burocrate non scalda certo le piazze e la sua ars oratoria non è lontanamente paragonabile a quella del presidente Erdogan.
La sua iniziativa più popolare è stata la cosiddetta «Marcia per la giustizia», che riuscì ad attirare migliaia di persone nel 2017 lungo un itinerario di 450 km che ha percorso l’intera Turchia portando il messaggio di un dissenso pacifico contro la repressione del governo in seguito al colpo di Stato. In questo modo, si è fatto notare dal grande pubblico.
Kemal Kilicdaroglu piace soprattutto ai laici: essendo un alevita, minoranza etnica che condivide solo in parte le liturgie dell’Islam sunnita, è incline a una visione secolare dello Stato. Questo – stimano gli analisti – gli potrebbe alienare le simpatie dell’elettorato islamico più conservatore, che predomina il panorama turco, al pari del suo avvicinamento alla leader di destra Meral Aksener, una delle rare donne carismatiche nella politica turca. Kilicdaroglu ha però intelligentemente dichiarato che, se sarà eletto, nominerà alla vicepresidenza Ekrem Imamoglu (CHP) o Mansur Yavas (dell’IYI), sindaci rispettivamente di Istanbul e di Ankara e popolari non meno di Erdogan.
In ogni caso la sua è una figura rassicurante: un professore calmo e pacato, forse persino noioso, che impersona la classica «forza tranquilla» su cui potrebbe puntare l’elettorato deluso dalle ricette economiche disastrose che hanno condotto la Turchia a un peggioramento sensibile di tutti gli indicatori macroeconomici. Particolarmente felice è stata l’iniziativa dello scorso anno quando, per protestare contro lo straordinario aumento dei prezzi dell’energia elettrica, Kilicdaroglu ha interrotto il pagamento delle bollette di casa sua e ha passato un’intera settimana senza elettricità, illuminato solo da una lampada e postando tutto sui social network.
Grazie anche all’operazione-simpatia del «Ghandi turco» (si nota una certa somiglianza tra i due, accentuata dagli occhiali da vista), oggi Kemal Kilicdaroglu viaggia intorno al 25 per cento dei consensi, dieci punti percentuali sotto a Erdogan. Una cifra che però potrebbe crescere, se riuscirà a far passare il messaggio che alla Turchia serve urgentemente un’agenda economica in antitesi rispetto a quella della leadership al potere, che ha condotto il Paese a un’inflazione ormai attestata intorno all’85%, a una perdurante crisi industriale e all’impoverimento delle grandi periferie della nazione.
Senza contare la politica estera: non gli appartengono gli equilibrismi di Erdogan, con i piedi in due staffe tra Occidente e Oriente, tra Nato e Russia, né la retorica del nazionalismo islamista. Il consigliere di politica estera di Kilicdaroglu ha dichiarato la volontà del leader di avere «rapporti più forti con Ue e nuovo patto sui migranti» e di promuovere il non interventismo: via soldati da Somalia, Qatar e Libia, e normalizzazione delle relazioni con la Siria.