Inchieste
March 24 2022
Cartoline dalla capitale ucraina, dove la popolazione vive in un clima da Nemico alle porte, il film sull'assedio di Stalingrado. Fra bombe russe, rifugi antiaerei, coprifuoco anche diurno e trincee scavate nei parchi.
Marina, bella ragazza ucraina dal sorriso solare e i capelli rossi, è una miracolata. «Sono scappata di casa all’arrivo dei russi. Ho preso la bicicletta, lo zaino e via» racconta in ottimo italiano davanti a un camion dei volontari che rischiano la vita per portare medicine e viveri alle città assediate. I suoi genitori vivono a Forlì e lei ha mandato il figlio in Italia per metterlo al sicuro.
«Le colonne dei carri armati russi le ho incrociate due volte» spiega come se fosse normale. «Nella prima c’erano una ventina di tank. Mi sono finta morta, ma i soldati hanno capito che qualcosa non andava e volevano spararmi. Poi si sono resi conto che non ero una combattente e mi hanno lasciata andare». Marina alla fine è riuscita ad arrivare in bicicletta a Kiev dopo aver percorso 30 chilometri in mezzo all’invasione. Adesso si è arruolata nella resistenza. Nella sede dei patrioti ucraini, un kalashnikov è appeso sotto la bandiera blu europea con le stelline.
A Kiev, sotto le bombe russe, si sopravvive con le unghie e con i denti o si muore. Una capitale europea con 3 milioni di abitanti si è svuotata della metà della popolazione in fuga dalla guerra, dove ogni giorno si ripete la sirena dell’allarme aereo come nella Seconda guerra mondiale. Gli sms delle autorità che arrivano sui telefonini sono eloquenti: «In caso di esplosione sdraiati a terra, coprendo la testa con le mani. Corri al rifugio. Aiuta i feriti. Non entrare negli edifici danneggiati». Un mese fa, prima dell’invasione del 24 febbraio, arrivavano i messaggini di promozione dei locali trendy aperti fino a notte fonda. Adesso il coprifuoco, talvolta anche di giorno, ha trasformato Kiev in una città fantasma.
Dal 14 marzo viene colpita da missili e razzi, che spesso non hanno una logica militare, ma puntano a terrorizzare e svuotarla dai civili per l’assalto finale. La vita può scivolare via prima dell’alba, alle cinque del mattino, quando i razzi Grad colpiscono una palazzina in vecchio stile sovietico. È morto, così, nel sonno, un anziano che viveva al terzo piano, ma gli ordigni hanno sfondato da una parte all’altra anche la stanza di un bambino. Sul lettino disseminato di calcinacci sono rimasti una piccola chitarra e SpongeBob, la spugna dei cartoni animati. Volodym, ultrasettantenne ancora sotto choc, ricorda «una terrificante esplosione che mi ha buttato giù dal letto. Ho toccato la fronte e mi scendeva del sangue».
Le strade della capitale, ampie e trafficate, sono state stravolte. Un dedalo di barricate, posti di blocco e trincee scavate nei parchi. I cavalli di Frisia dovrebbero fermare i tank russi assieme alle mine per ora allineate sotto i guardrail, ma pronte all’uso. Per bloccare le principali arterie di comunicazione si utilizzano anche i vecchi tram, una terribile cartolina simile a quella di Sarajevo all’inizio dell’assedio negli anni Novanta.
Le bombe sono solo l’antipasto, ma quello che potrebbe accadere è già realtà nei sobborghi. La torretta del carro armato russo è volata via, ribaltata a terra dalla furia dell’artiglieria ucraina. Il resto è un ammasso annerito di lamiere e cingoli fusi dal fuoco. Pavlov è un ufficiale della difesa territoriale in mimetica e kalashnikov corto da paracadutista, che ci scorta al fronte di Stoyanka a un passo dalla periferia ovest di Kiev.
La colonna di carri russi puntava sulla capitale arrivando in forze lungo l’M06, lo stradone che ci troviamo davanti, ingombro di carcasse di auto carbonizzate o crivellate dai proiettili. La colonna di fumo nero, poche case più in là, ci fa compagnia da quando siamo arrivati sul fronte. Ancora oltre, a 800 metri dai russi un razzo centra un edificio sprigionando altro fumo dal buco lasciato sulla facciata.
«Andiamo via perché i russi geolocalizzano i telefonini e puntano l’artiglieria» ordina il riservista con i capelli bianchi. A un paio di chilometri si sente bene la raffica dei lanciarazzi multipli, gli eredi dei famigerati «organi» di Stalin. Non sempre, però, sono a distanza di sicurezza.
Il primo sibilo fa già capire che si mette male. Mi getto a terra nel canale in mezzo al fogliame e la granata esplode fragorosa in mezzo alla foresta sulla sinistra. Non più di 40 metri, ma gli alberi fanno da scudo a una sventagliata di schegge. I civili in fila indiana che sperano nella salvezza, dopo la fuga da Irpin, sono travolti dal panico. Il secondo colpo arriva proprio davanti a noi, a 30 metri, sul posto di blocco dell’esercito ucraino all’ingresso del sobborgo della capitale che sta cadendo nelle mani dei russi. Il nuovo sibilo, prima dell’impatto, mi fa appiattire ancora di più a terra. L’esplosione alza una colonna di fumo con un fragore che devasta i timpani.
È il panico totale: i soldati ucraini si ritirano di corsa e i civili scappano da tutte le parti. Ogni giorno è così, qui dove gli invasori stanno lentamente portando a termine la manovra a tenaglia che vuole stritolare Kiev da nord. Nelle prime 72 ore di escalation, con le bombe sulla capitale, è caduto sul campo un giornalista al giorno e 35 sono stati feriti. È tutto maledettamente pericoloso. Anche gli ucraini hanno il dito nervoso sul grilletto. A un posto di blocco ci scambiano per sabotatori russi travestiti: mani sul cruscotto, mitra puntati e ordini secchi per i controlli.
Sotto le bombe e la neve che cade fitta i civili di Bucha, Hostomel e Irpin scappano. Un’anziana con il giubbotto lilla è stata messa in un carrello della spesa. L’odissea è drammatica al ponte fatto saltare in aria dagli ucraini all’ingresso di Irpin per rallentare l’avanzata russa. Un’immagine dantesca: sotto la navata ancora in piedi, dall’altra parte, sono un migliaio i civili pigiati uno all’altro nella disperata attesa di passare il fiume. Soprattutto donne, bambini, adolescenti e anziani che devono percorrere una precaria passerella. Nella fila di chi è appena passato una mamma rincuora il figlio piccolo disperato in braccio a un soldato: «Arthur non piangere, papà arriva...».
La strada che viene dalla città è un cimitero di automobili abbandonate dai civili in fuga. I colpi di artiglieria si fanno più vicini e una colonna di fumo scuro si alza a meno di un chilometro davanti ai primi palazzi bianchi di Irpin. Eduardo è un volontario «suicida» che con un furgoncino entra a Irpin per evacuare chi rimane indietro. Ci buttiamo dentro e a folle velocità rischiamo di finire dritti tra i russi. Il furgoncino si ferma davanti un rifugio dove alcuni anziani, da giorni, sopravvivono sottoterra al lume di candela. Appena un vecchietto ci vede alza il bastone ed esclama «Slava Ukraina!» (Gloria all’Ucraina!).
Alla prima postazione alla periferia di Kiev sulla via dedicata al generale sovietico Mikhail Ivanovich Naumov, esperto di guerriglia, si riversa il dolore. Il civile ferito alla gamba, il militare colpito su una barella e gli sfollati in lacrime che raccontano di razzi, proiettili o case in fiamme. Olga ai primi colpi di artiglieria troppo vicini si raggomitola, terrorizzata, in un angolo dietro un chiosco e inizia a pregare tenendo stretto il suo cane.
Sul fronte Ovest i poliziotti con giubbotti antiproiettile e kalashnikov gridano «Davai, davai» (Vai, vai) alle macchine con le bandiere bianche che formano una colonna in fuga. Una signora bionda di mezza età, che piange a dirotto, racconta fra i singhiozzi: «Stavamo fuggendo quando hanno iniziato a sparare e sparare...». Gli autobus gialli con la croce rossa caricano gli sfollati per trasferirli in stazione dove i treni vengono presi d’assalto in un caos che ricorda il film Il nemico alle porte sull’assedio di Stalingrado. I padri spingono le figlie sui vagoni diretti verso ovest, i mariti si separano dalle mogli con le lacrime agli occhi e in mezzo all’urlo delle sirene dell’allarme aereo il capotreno dà l’ordine da stato di guerra: «Solo donne e bambini».
Chi resta passa la notte nei rifugi come le stazioni della metropolitana trasformate in bunker, dove la musica struggente del violoncello di un giovane artista fa compagnia ai civili. Materassini per terra con intere famiglie che si sistemano sotto i grandi schermi della pubblicità. Ragazzini che dormono nei vagoni sono attaccati ai videogiochi che simulano la guerra vera che si combatte in superficie. «Ero andato a casa per prendere qualcosa da mangiare quando è scoppiato il missile vicino alla torre della televisione. Un’ondata di calore mi ha gettato a terra. Sono scappato di corsa qui» racconta Alexander, un ragazzo grande e grosso.
Quindicimila persone passano ogni notte nella metropolitana, ma le catacombe della capitale ucraina sono anche i rifugi sotto le scuole o quelli più angusti dei condomini. Nell’ospedale centrale della città, 300 pazienti, soprattutto bambini, sono stati spostati nei rifugi. Victoria, ha più di 70 anni, è stata chiamata così dal padre entrato a Berlino con l’Armata rossa nel 1945. Ormai vive sottoterra e ammette la sua paura più grande: «Che scoppi la Terza guerra mondiale».