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February 06 2017
Per Lookout news
Accettare la sovranità sulla Crimea e sospendere le sanzioni economiche, approvare le basi militari sulle coste della Siria e il comando del generale Haftar in Cirenaica. Trovare un’intesa sulla spartizione della Siria e sulla lotta al terrorismo. Ecco cosa dovrebbe fare Donald Trump per garantirsi la non-ostilità della Russia e aver mano libera nel lanciare la sua sfida alla Cina, compensando l’ascesa di Pechino come potenza economico-militare e spezzando possibili intese tra le due potenze asiatiche, che minerebbero la primazia americana e occidentale nel mondo.
A sostenerlo è Henry Kissinger, il back door man della Casa Bianca che, alla tenera età di 93 anni, torna a sussurrare all’orecchio di un presidente degli Stati Uniti. Sarà per la sua innegabile esperienza o per il fatto che è legato a Trump da un’amicizia durevole. Fatto sta che, tra i dietro le quinte della nuova amministrazione, si racconta di lunghi incontri tra l’ex segretario di Stato e il nuovo Commander in Chief.
Comodamente seduto sui divani di rappresentanza, sotto lo sguardo del busto di Winston Churchill e attorniato dai tendaggi dorati con cui Melania Trump ha arredato il nuovo studio ovale, pare che Kissinger stia passando molto tempo a dispensare consigli al neofita della politica. Di certo, gli ha raccontato i dettagli delle sue numerose visite in Russia nel 2016, dei faccia a faccia con Vladimir Putin e dell’incontro lo scorso dicembre con Xi Jinping che ha segnato il suo ritorno in Cina, dopo i viaggi preparatori dello storico meeting del 1972 tra Nixon e Mao Zedong.
Da qui discendono i suggerimenti di cui sopra, che Donald Trump e i suoi uomini sembrano voler assecondare, forse plagiati dalla caratura del personaggio o forse perché in linea con il suo pensiero. Del resto, nell’inner circle del presidente, tra consiglieri e rappresentanti dell’esecutivo, vi sono non pochi uomini molto vicini a Kissinger. Uno di questi è il neo Segretario alla Difesa, generale James “cane pazzo” Mattis, che fino al 2016 sedeva insieme a lui nel consiglio dei direttori di Theranos, una controversa società californiana che si occupa di alta tecnologia medica.
Un altro è il neo Segretario di Stato, Rex Tillerson: l’ex ad di ExxonMobile è molto vicino alla famiglia Rockefeller (ExxonMobile proviene dal nocciolo originario della potente holding dei Rockefeller, la Standard Oil) e dunque allo stesso Kissinger, che era amico personale di David Rockefeller e insieme al quale fondò nel 1973 la Commissione Trilaterale, un influente gruppo di studi geopolitici per la cooperazione internazionale. Tillerson e Kissinger fanno inoltre parte dell’influentissimo Center for Strategic and International Studies (CSIS) di Washington.
Entrambi questi signori, Mattis e Tillerson, hanno in mano le redini della politica estera del governo degli Stati Uniti e dunque sono realmente nella posizione di poter sviluppare le linee guida disegnate da Kissinger. Per quanto riguarda l’imprevedibile Donald Trump, invece, non è dato sapere se abbia davvero fatto sue le idee di Kissinger anche se, a giudicare dalle dichiarazioni rilasciate in campagna elettorale, non si discosta molto dalle vedute del veterano degli strateghi americani. La sua politica estera, però, è ancora tutta da conoscere e svelare.
Il rapporto con la Russia
Circa la distensione con la Russia, ad esempio, Trump appare realmente intenzionato a promuoverla, ma vi sono alcune incognite di cui tenere conto. La più evidente è relativa al ruolo dell’Iran, importante alleato di Mosca in Medio Oriente e Asia Centrale. L’Amministrazione Trump, nel voler marcare le distanze dalla precedente gestione, sta riflettendo se e come recidere il filo che oggi lega Mosca a Teheran, e se sconfessare le intese raggiunte da Barack Obama sul nucleare iraniano, apice della politica estera del presidente democratico.
Dal suo punto di vista il Cremlino, se vuole ottenere che siano cancellate le sanzioni economiche ordinate da Obama come rappresaglia per l’annessione della Crimea nel 2014 e se intende mettere al sicuro l’espansione geografica verso il Mar Nero e il Mediterraneo, dovrà accettare di buon grado l’astio di Washington nei confronti di Teheran e, forse, dovrà anche sacrificare sull’altare del compromesso il presidente siriano, Bashar Al Assad, alleato degli ayatollah.
In Medio Oriente Vladimir Putin ha saputo agire d’anticipo e si è abilmente ritagliato il ruolo di deus ex machina in Siria, sfruttando soprattutto l’indecisione e l’arrendevolezza dell’Amministrazione Obama nella regione. Ma il presidente russo sa fin troppo bene di non poter trattenere ancora a lungo le spinte centrifughe di sunniti, curdi e di tutti gli islamisti delusi dalle prepotenze dell’asse sciita, Iran-Damasco-Hezbollah. E, soprattutto, sa di non poter sottovalutare l’imprevedibilità di Donald Trump, che ha idee e metodi completamente diversi dal suo predecessore, spesso difficilmente interpretabili.
Non potendo più concretizzarsi il sogno del presidente Bashar Al Assad di ricomporre la Siria, ad esempio, Putin dovrà decidere insieme alla controparte americana se e come ridisegnare la mappa di Siria e Iraq. Per fare questo, potrebbe valere la pena abbandonare le pretese del dittatore siriano. Anche se questo significherebbe prendere le distanze anche dagli ayatollah di Teheran, che quella guerra invece la vogliono vincere.
Mosca non sembra troppo restia ad assecondare i desideri della Casa Bianca, considerato che Vladimir Putin ha già raggiunto tutti gli obiettivi che si era prefisso nella regione. L’unico che ancora gli manca è una sponda internazionale, indispensabile per mettere al sicuro le recenti conquiste e per garantirsi un riconoscimento ufficiale che lo tenga al riparo da future rivendicazioni territoriali. Ed ecco che Trump diventa ora l’uomo giusto al momento giusto.
In ogni caso, si è già capito che la nuova Amministrazione americana non ha alcuna intenzione di assecondare le mire geopolitiche iraniane. Il decreto presidenziale sull’immigrazione che ha inserito anche l’Iran nella lista dei sette paesi i cui cittadini non sono più graditi sul suolo statunitense, ne è la prova lampante. L’Iran per parte sua ha risposto con una serie di test su nuovi missili balistici, rivelando il suo vero volto solo temporaneamente coperto da una parvenza di moderazione al tempo dell’elezione di Hassan Rouhani.
Il lancio dei missili è suonato come un moto d’indipendenza, forse anche dalla Russia, ma soprattutto come una provocazione personale al presidente americano, a riguardo del quale il presidente iraniano Rouhani ha commentato caustico: «Trump è nuovo alla politica, viene da un mondo differente. Si tratta di un ambiente totalmente nuovo per lui. Gli ci vorrà molto tempo prima che capisca cosa sta accadendo nel mondo e questo costerà caro agli Stati Uniti».
L’obiettivo cinese
Ciò detto, se Mosca ricambiasse il favore e trovasse un compromesso con Washington, l’America potrebbe congelare l’escalation militare ai confini dei Paesi baltici e della Polonia e lasciare a Putin il Mediterraneo. Dopodiché, gli Stati Uniti potrebbero finalmente affrontare la questione del Pacifico, dove il Cremlino non ha interessi cogenti e dove invece gli americani hanno 28mila truppe schierate in Corea del Sud e altre 50mila in Giappone, ufficialmente in funzione di deterrenza per la minaccia rappresentata dalla Corea del Nord.
Anche per questo sarà importante seguire i prossimi sviluppi diplomatici nel sudest asiatico, dove il risiko di alleanze e riposizionamenti è appena ricominciato. Non può sfuggire, infatti, che le prime mosse della Casa Bianca siano orientate a lasciarsi definitivamente alle spalle la fallimentare strategia del Pivot to Asia tracciata da Obama: il nuovo presidente ha cancellato il TPP, la partnership transpacifica (morta sul nascere); è in attesa di pesare la fedeltà agli Stati Uniti delle Filippine del controverso presidente Rodrigo Duterte; pensa di cooptare Indonesia e Vietnam per porre un argine economico alla penetrazione cinese in America; è determinato a riportare le fabbriche e il lavoro delocalizzati in Asia nel recinto di casa. In sintesi, vuole imporre un nuovo ordine nel Pacifico. E, per ottenerlo, potrebbe iniziare a fare pressione su Pechino, magari destabilizzando la Corea del Nord o cavalcando le contese territoriali nel Mar Cinese Mediorientale. Di certo, aggredendola economicamente.
In conclusione, la nuova amministrazione degli Stati Uniti ha messo in agenda una guerra commerciale contro la Cina che, inserita nel più grande contesto geostrategico, corrisponde a una manovra che getta le basi per un accerchiamento progressivo di Pechino. Un programma di lungo termine che, presto o tardi, se le cose non andranno come sperato, potrebbe anche costringere la Casa Bianca a sfruttare uno di questi grimaldelli sopra descritti per forzare la mano e scardinare l’ordine geopolitico attuale.
Certamente, questi sono solo scenari ipotetici e lungi dal realizzarsi. Anche perché, per adesso, l’Amministrazione Trump sembra puntare tutto sulla stabilizzazione – anche se nel segno della discontinuità - dei rapporti internazionali. Tuttavia, sulla carta, i piani per simili progetti sono già sulla scrivania del presidente, proprio grazie a Henry Kissinger.
Se in passato lo stratega è stato l’architetto del riavvicinamento USA-Cina, oggi che ancora sussurra all’orecchio del presidente degli Stati Uniti, la realpolitik gl’impone di battezzare una nuova dottrina, consapevole che la situazione è ribaltata rispetto a quarantacinque anni fa, che l’Amministrazione Trump è smaccatamente ostile a Pechino e che l’uomo al comando è un soggetto alquanto singolare. «Questo presidente eletto - ha confidato Kissinger a Xi Jinping nel suo ultimo viaggio in Cina - è unico nella mia esperienza, perché non ha assolutamente un bagaglio di obblighi verso alcun gruppo particolare, è diventato presidente sulla base della sua strategia». Insomma, Donald Trump è una sorpresa anche per lui. Come, del resto, lo è stata per tutti la vittoria elettorale di una persona a digiuno totale di politica quale il nostro The Donald.