Dal Mondo
July 27 2021
«Per quanto riguarda il processo all'Aja, indubbiamente si ritiene che nel corso della guerra del 1999 alcune personalità si siano macchiate di atti criminali e pertanto la Corte cercherà di accertare queste responsabilità, così come è stato fatto per i leader serbi qualche anno fa. Quindi anche da parte dei kosovari albanesi, probabilmente ci sono stati degli atti che devono essere perseguiti. È un atto dovuto sulla base di fatti che dovranno essere giudicati. Chiaramente non si va a processare le organizzazioni che hanno operato in quel periodo, ma si va a perseguire, se saranno accertati i fatti, singoli personaggi che si sono macchiati di crimini, laddove ciò verrà confermato».
Ma come mai ci è voluto tanto tempo? Sono passati sei anni dalla creazione della Corte speciale per il Kosovo all'Aja e comunque parliamo di fatti avvenuti oltre 20 anni fa...
«Guardi, se andiamo a vedere i personaggi hanno anche ricoperto ruoli istituzionali. Da non dimenticare che si tratta di persone che hanno combattuto e pertanto considerati dei liberatori, in un certo senso degli eroi».
Certo: è stato indagato per crimini di guerra persino il presidente Hashim Thaçi, che si è dovuto dimettere. Secondo la procura del tribunale, Thaçi e gli altri leader dell'Uck sarebbero direttamente responsabili dell'omicidio di quasi cento persone.
«Credo che prima di procedere, visto il calibro dei personaggi, i giudici abbiamo voluto verificare attentamente tutte le testimonianze».
Diciamo però che contro i serbi la giustizia è stata un po' più rapida. Non è che qui c'è anche una questione politica, visto che di fatto l'Occidente si era schierato con gli albanesi kosovari?
«Diciamo che c'è stato un comportamento nei due casi diverso. Il primo è stato più immediato, forse perché verosimilmente la comunità internazionale vedeva nella Serbia l'aggressore e nella comunità albanese la vittima. E probabilmente questo è stato il motivo iniziale. Fermo restando, però, che come possiamo constatare la giustizia va avanti lo stesso, con tempi diversi, dovuti alle circostanze, però alla fine farà il suo corso».
Nonostante qualche imbarazzo diplomatico, lentamente la giustizia si fa strada, insomma?
«Beh, sì. Questo, alla, fine è importante. Sinceramente dopo la proclamazione unilaterale di indipendenza il Kosovo ha fatto grossi passi in avanti in molti settori, magari ci si aspettava che facesse dei passi in avanti anche su alcune specifiche questioni che invece appaiono essere poste in una specie di limbo. Cioè che cercasse di attuare tutti quegli impegni che, mano a mano, nel tempo sono stati presi anche formalmente, però ogni tanto qualcosa è stato disatteso».
A che cosa si riferisce?
«Al sito del Monastero di Decani, al quale fa riferimento il libro di Andrea Angeli, in cui sottolinea il successo raggiunto sulla controversia che andava avanti da anni sulla costruzione di una strada nei pressi del complesso. L'aspetto stupefacente è che, dopo tutti gli sforzi diplomatici per arrivare all'accordo sulla strada, una volta firmato, come per evanescenza cinematografica, non se ne è più parlato. Perché poi alla fine per lo studio di fattibilità, che verrebbe finanziato dall'Unione Europea, la richiesta deve pervenire dal governo del Kosovo. E a tutt'oggi tale richiesta non è arrivata».
Ricapitolando, Pristina voleva costruire una nuova strada vicinissimo al monastero...
«Allora, la strada prevista, un raccordo internazionale diretta in Montenegro, avrebbe dovuto costeggiare le mura del complesso. Chiaramente il clero era fortemente preoccupato, perché il transito di mezzi pensati vicino a un edificio vecchio di 700 anni, riconosciuto patrimonio dell'Unesco, rischiava oltre a renderne precarie le condizioni dell'antico sito, avrebbe snaturato la religiosità del luogo. L'accordo raggiunto a fatica prevedeva di costruire un bypass su una valle laterale, che sarebbe diventata la vera strada internazionale per il traffico verso il Montenegro, devo aggiungere progetto di un certo impegno tecnico e quindi economico. Questo accordo, raggiunto nell'ambito dell'Imc, il Consiglio per l'Attuazione e il Monitoraggio, era stato concordato con il rappresentante Ue in Kosovo, con due ministri del governo di Pristina, con il capomissione dell'Osce, con l'Abate del monastero, padre Sava, con l'ambasciatore italiano Nicola Orlando e con il generale Michele Risi, il comandante del momento. Ebbene, era stato concordato questo piano e a oggi non è stata ancora avanzata la richiesta di studio di fattibilità. È ancora tutto fermo».
Per raggiungere quest'accordo, secondo quanto racconta Andrea Angeli nel libro, gli italiani sono stati fondamentali.
«Sicuramente sì. Mi risulta che i promotori per la finalizzazione dell'accordo sono stati il generale Risi e l'Ambasciatore Orlando». Che però, va detto, si sono mossi in continuità di quanto già avviato dai due Comandanti precedenti della KFOR i generali Salvatore Cuoci e Lorenzo D'Addario. Quindi si è trattato di finalizzare con successo lo sforzo iniziato ben tre anni prima.
Ma perché poi si è tutto fermato?
«Bella domanda...».
Finché la strada passava vicino al monastero, le procedure erano celeri. Nel momento in cui la strada è stata deviata non interessa più? È così che stanno davvero le cose?
«Però devo fare una precisazione. Questa strada ricade in una Zona di Protezione Speciale. Nel 2008 l'Assemblea parlamentare kosovara aveva adottato queste zone di protezione in cui ricadevano tutti i siti del clero ortodosso presenti in Kosovo. Fra questi, il primo era il monastero di Decani. Questo provvedimento dice esplicitamente che in tali zone non si possono fare costruzioni o quantomeno strade, specie se in zone rurali. Dunque, la legge dice esplicitamente che non si può costruire nelle zone a protezione speciale, di conseguenza si trova l'accordo per fare un bypass dell'area protetta. E perché siamo fermi?»
Forse perché a questo punto la strada non è più così necessaria?
«Io questo lo lascio dire a lei. Mi faccio solo delle domande».
La vicenda è significativa. Se per risolvere il problema di una strada (tema emblematico ma non fondamentale per le sorti del Paese) c'è voluto un immane sforzo diplomatico, figuriamoci cosa ci vorrà per affrontare un problema come i crimini dell'Uck...
«Io non mi permetto di parlare di altro oltre a Decani, perché non è mia competenza. Ma faccio un altro esempio che solleva degli interrogativi. La Corte costituzionale kosovara nel 2016 ha confermato la sentenza della Corte suprema del 2012, per cui il Comune di Decani deve restituire più di 24 ettari di terra al monastero di Decani. Ebbene, i funzionari del Catasto non hanno proceduto alla restituzione dei terreni. È come se in Italia la Corte costituzionale emettesse una sentenza e il funzionario del catasto non procedesse a fare la registrazione. Questo dà il senso delle difficoltà».
Ma se il Kosovo, peraltro un potenziale candidato all'adesione all'Ue, non riesce neanche a far applicare le sentenze della Corte costituzionale, come potrà garantire un eventuale equo processo al suo ex presidente?
«Intanto il processo si terrà all'Aja. Vedremo con quali risultati».
Però è un processo della Corte speciale per il Kosovo, seppure con giudici internazionali.
«Sono confidente che faranno bene il loro lavoro».
Lo speriamo tutti. Però questo fa capire le difficoltà: in gioco c'è l'ex presidente, indagato per crimini di guerra.
«Certo. Le difficoltà sono tante. Chiaro che un Paese giovane che ambisce a entrare in organizzazioni internazionali dovrà essere sottoposto a esami complessi e articolati. Gli aspetti fondamentali sono il rispetto dei diritti umani e della legge. Strada ce n'è da fare, ovviamente. Però dobbiamo capire che esistono ferite aperte, difficili da chiudere».
Ferite aperte da entrambe le parti...
«Assolutamente. Le ferite aperte sono da entrambe le parti. Io nel 2004 in Kosovo ho visto in diretta quartieri bruciati, chiese distrutte, cimiteri profanati dai kosovari albanesi. Ma quando andai da un Mufti della zona a chiedergli di aiutare quella gente a capire che anziché distruggere le chiese bisognava creare un dialogo inter-religioso, il religioso mi regalò un libro con le foto di tutte le moschee che erano state distrutte dai serbi. In quel caso la guerra era finita da poco. Ma oggi, nel 2021, non mi sembra di vedere, con evidenza, in alcuni aspetti della comune convivenza la ricerca attenta di punti d'incontro che possano unire questa realtà multietnica e multiconfessionale»
Intende dire che in tutti questo anni non sono stati fatti passi avanti sul fronte della riconciliazione?
«È un processo lungo, che ancora ha necessità di essere meglio affinato. Perché i fatti della strada e della restituzione delle terre dimostrano che manca ancora l'accettazione reciproca. E poi c'è lo status della chiesa ortodossa, che va perfezionato».
È per questo il ruolo della comunità internazionale è così importante. Se non verranno un po' obbligati dall'esterno, non instaureranno mai un dialogo.
«E questa è la cosiddetta sovranità controllata. Si riconosce l'indipendenza, ma li si assiste nella crescita. Ora bisogna vedere quali obiettivi e che tipo di maturità sono stati raggiunti».
Diciamo che forse la comunità internazionale nel 1999 sarebbe dovuta essere più cauta nell'etichettare i «buoni» e i «cattivi».
«Su questo punto io non so cosa rispondere. Sono state decisioni politiche prese dai governi. I militari eseguono gli ordini. Non dimentichiamo che l'intervento in Kosovo è stato attuato dalla Nato sotto l'egida dell'Onu, a seguito di un ampio consenso della comunità internazionale».
La politica però deve assumersi le responsabilità delle decisioni prese.
«Non ci sono dubbi. Ia componente militare risponde delle modalità operative con le quali attua i compiti che sono stati assegnati assumendosene le responsabilità, però chi decide l'intervento militare è la politica, sulla base di sue valutazioni e di accordi internazionali. Mi consenta infine di aggiungere una mia considerazione personale riguardo l'impegno dei nostri militari in Kosovo».
Prego.
«Possiamo senz'altro affermare che il contingente italiano è quello che ha saputo interpretare sul campo in modo eccellente e con continuità il senso della missione, garantendo un servizio responsabile e imparziale per la sicurezza e l'assistenza delle Istituzioni kosovare e della popolazione tutta, favorendone il dialogo e la riconciliazione. La fiducia conquistata ha permesso di ricoprire ininterrottamente per lunghi anni l'incarico di comando della Kfor, riscuotendo il consenso e la fiducia della comunità e delle organizzazioni internazionali indistintamente».