Dal Mondo
January 06 2022
Ricorre oggi l’anniversario dell’irruzione in Campidoglio: i fatti del 6 gennaio 2021 hanno segnato profondamente la politica statunitense. Che quell’evento sia stato gravissimo e riprovevole, è fuori discussione. Il problema è tuttavia capire se la commissione parlamentare d’inchiesta stia realmente facendo chiarezza su quanto avvenuto quel giorno. Assistiamo da mesi ad annunci eclatanti, mentre spesso si ripete che il cerchio si starebbe stringendo attorno all’ex presidente Donald Trump. Eppure, se guardiamo più nel dettaglio, la questione appare un tantino più complessa.
Cominciamo col rammentare che la commissione è formata da nove membri (sette democratici e due repubblicani), tutti nominati da Nancy Pelosi. Un’evidente anomalia, verificatasi dopo che la Speaker della Camera, con una mossa senza precedenti, aveva posto il veto su alcuni dei componenti selezionati dal capogruppo repubblicano, Kevin McCarthy. Tale circostanza ha quindi portato quest’ultimo a ritirare polemicamente la sua intera delegazione, facendo sì che – come vedevamo – tutti i membri dell’organo siano stati scelti alla fine dalla Pelosi. La domanda da porsi a questo punto è se, in una democrazia liberale, una commissione parlamentare d’inchiesta possa contare dei componenti tutti nominati dal leader del partito di maggioranza. Già questo dovrebbe indurre a non prendere come oro colato tutto quanto viene detto e comunicato da un siffatto organo.
Un organo, ricordiamolo, che è attualmente in contenzioso legale con Trump. La commissione gli ha infatti ingiunto di consegnare i documenti riservati dedicati al 6 gennaio: una richiesta a cui l’ex presidente si è opposto, invocando il privilegio dell’esecutivo. Lo scontro finirà presto davanti alla Corte Suprema, mentre le corti inferiori si sono pronunciate a favore della commissione. La vulgata dominante sostiene che la reticenza di Trump sarebbe dettata dalla volontà di nascondere qualcosa. Può anche darsi, per carità. Andrebbero tuttavia considerati anche altri due fattori. In primis, dei quattro giudici che hanno finora dato torto all’ex presidente repubblicano, tre sono stati nominati da Barack Obama e uno da Joe Biden. In secondo luogo, nella motivazione della sentenza d’appello si legge che Trump non avrebbe fornito argomenti convincenti per invalidare le ragioni espresse dallo stesso Biden nel respingere il ricorso al privilegio dell’esecutivo (quando è infatti un ex presidente a chiedere di non divulgare documenti, deve pronunciarsi anche il presidente in carica). Ora, se è lecito sospettare che Trump abbia qualcosa da nascondere, dovrebbe essere altrettanto lecito sospettare che, alla radice della posizione di Biden, non ci sia una serena valutazione dell’equilibrio tra poteri costituzionali, ma la volontà di colpire un avversario politico.
Si registra poi un paradosso. La commissione nominata dalla Pelosi esige trasparenza da Trump e dai suoi collaboratori di allora. Quella stessa trasparenza che tuttavia la Speaker non sembra troppo propensa a garantire da parte sua. Lunedì scorso, il deputato repubblicano Rodney Davis ha infatti inviato una lettera formale, lamentandosi del fatto che il Partito Repubblicano – che sta conducendo un’inchiesta autonoma sui fatti del Campidoglio – non ha visto esaudite le proprie richieste di ottenere alcuni importanti documenti relativi alla stessa Pelosi: in particolare, l’elefantino ha chiesto, finora senza successo, di visionare i registri delle comunicazioni che intercorsero, il 6 gennaio scorso e nei giorni immediatamente precedenti, tra la Speaker e il Sergeant at Arms della Camera: autorità preposta alla sicurezza della Camera, che risponde direttamente proprio alla Speaker del suo operato. In quel periodo, tale incarico era detenuto da Paul Irving che, secondo quanto testimoniato a febbraio dall’ex capo della polizia del Campidoglio Steve Sund, fu tra coloro che si opposero –il 4 gennaio 2021– a dispiegare la Guardia nazionale a protezione dell’edifico il giorno 6. Sia chiaro: Irving non fu l’unico responsabile di quella scelta (va infatti anche citato l’allora Sergeant at Arms del Senato, Michael Stenger, che rispondeva all’allora capogruppo repubblicano al Senato, Mitch McConnell). Tuttavia, secondo Sund, Irving fu il primo a rifiutare l’idea del dispiegamento e, in tal senso, i repubblicani vorrebbero capire se, alla base di quella scelta, si sia verificato o meno un coinvolgimento della Pelosi. Purtroppo però le richieste finora inoltrate per ottenere queste comunicazioni sono cadute nel nulla. Per quale ragione? Un’altra domanda da porsi è: perché la commissione parlamentare d’inchiesta sembra interessarsi pressoché esclusivamente dei documenti di Trump, tralasciando invece quasi del tutto il tema delle falle di sicurezza? Eppure, lo scorso giugno, il Senato pubblicò un rapporto bipartisan in cui quelle gravi (e in certi casi difficilmente spiegabili) falle furono ampiamente dettagliate.
E’ chiaro che si vuole perseguire la narrativa del tentato golpe: narrativa che svariati media (americani e nostrani) hanno già acriticamente sposato. Ora, che Trump abbia commesso un grave errore politico, tenendo l’ormai noto comizio il 6 gennaio 2021, è chiaro. Ciò detto, va anche sottolineato che, almeno al momento, prove di un tentato colpo di stato non ce ne sono. Come riferito martedì scorso da Cbs News, su oltre 700 facinorosi finiti sotto accusa per i fatti del Campidoglio, nessuno è finora stato accusato di “sedizione”. Non solo: il 20 agosto, Reuters ha anche rivelato che l’Fbi ha trovato “scarse evidenze” del fatto che l’irruzione potesse essere stato un “complotto organizzato”, cioè un tentativo di colpo di Stato. “L’Fbi a questo punto ritiene che la violenza non sia stata coordinata centralmente”, scriveva in particolare Reuters. Questo ovviamente non toglie che l’irruzione sia stato un evento gravissimo. Ma, come abbiamo appena visto, la tesi del “golpismo” non è al momento suffragata dai fatti. Certo: c’è il famoso PowerPoint, presente tra i documenti dell’ex capo dello staff della Casa Bianca Mark Meadows, che, secondo alcuni, proverebbe l’intento sovversivo. Si tralascia tuttavia spesso di dire che quel PowerPoint fosse stato pubblicato su Twitter dalla giornalista conservatrice Lara Logan il 5 gennaio 2021: vale a dire, ventiquattro ore prima dell’irruzione. Ciò significa che il piano del golpe sarebbe stato diffuso ai quattro venti il giorno prima della sua messa in atto, tra l'altro da parte di una giornalista ideologicamente affine al presunto capo dei golpisti. Un po’ strano, no?
Proprio la gravità, che l’irruzione in Campidoglio ha rappresentato, richiederebbe che su quell’evento sia fatta piena luce. Il punto è che, per raggiungere un simile obiettivo, sarebbe necessario uno spirito bipartisan e il rispetto delle istituzioni da parte di tutti. Ma proprio di tutti. Se, al contrario, si continuerà ad affrontare la questione secondo la logica della lotta politico-elettorale, ciò produrrà ancor più divisione, aggravando un già difficilmente sostenibile clima di polarizzazione. Si arriverà a prima o poi a prendere atto di questa necessità da parte del mondo politico (e mediatico)? Ne dubitiamo fortemente.