MOLISE - TRASUMANZA DI MUCCHE DALLA PUGLIA AL MOLISE - DA SAN MARCO IN LAMIS A FROSOLONE 180 KM DI PERCORSO
News
June 18 2018
Sono venuto in Molise e ho scoperto che in politica «transumare» è un vizio ma che in montagna è invece la danza dei pastori, il mambo del mandriano.
Per 180 chilometri sono stato in compagnia della famiglia Colantuono e della figlia Carmelina, una donna che con il suo bastone sarebbe capace di irretire Matteo Salvini e di ridicolizzare il campesinos Alessandro Di Battista, «Ti dico la verità. Mi dispiace quando transumanza viene associata ai deputati infedeli. Transumare in natura significa dondolarsi tra mare e montagna, cercare il caldo in inverno e il fresco in estate».
Così mi dice Carmelina che raggiungo in Puglia, a San Marco in Lamis. Siamo in provincia di Foggia e in compagnia di 300 bovini di razza podolica e maremmana lasciamo l’azienda Colantuono, ultima a tenere in vita in Italia l’antico rito della transumanza, per iniziare la marcia. Siamo diretti verso Campobasso. Il nostro arrivo è la piccola Frosolone che subito capisco essere il nostro Santo Sepolcro, la nostra Gerusalemme. Non esagero. Maurizio Cavaliere, un bravissimo giornalista che ha creato la pagina Facebook “Transumanza e altre meraviglie del Molise”, mi anticipa che la strada che ci aspetta non è altro che quella che i pellegrini percorrevano per raggiungere l’Oriente.
Il percorso che seguiremo sarà quello dei tratturi. Gli chiedo di cosa si tratta. Mi risponde che il termine indica antichi sentieri di pietra battuta. L’origine è preistorica: «Da qui sono passati uomini e animali, fedeli e commercianti. Immagina la fibra ottica. Ebbene, il tratturo è per i pastori un po’ come la fibra per gli informatici». Con le dritte di Maurizio mi mescolo in questa carovana che pensavo fosse composta da uomini silenziosi e infastiditi dalla fatica e che invece immediatamente scopro numerosa, esultante, incontenibile. A domare la mandria non ci sono solo i fratelli di Carmelina, Franco, Nunzio, Antonio, Felice e Carmine. Il più pittoresco è Andrea De Ciapis che si è bardato come un cowboy, ma che in realtà fa l’avvocato, a Benevento, e che qui è venuto «un po’ perché la transumanza è una zingarata, un po’ perché insieme al mio amico Andrea ho la passione per i cavalli».
E infatti, in sella e altissimi come fossero le figure della carte da gioco, faccio la conoscenza dei mandriani che rivelo non riuscire a quantificare. Quanti sono? Da San Marco in Lamis è partito Filippo Mainella. Ha poco più di vent’anni, è studente di agraria ed è pronto a volare in Spagna per l’Erasmus. Mi confessa che questa è la sua terza transumanza e che per la prima volta ha un cavallo tutto suo. Si chiama Said. È orientale e non solo di nome. Vede che non resisto. Non ho mai montato a cavallo e non ho idea neppure su quale gamba scaricare il peso del corpo. Grazie a Filippo, che è più affettuoso di Cebrione, lo scudiero e fratello dell’eroe omerico Ettore, salgo a dorso di Said che non recalcitra ma anzi si piega quasi per mettermi a mio agio. Entro così a tutti gli effetti a far parte di questa famiglia che ormai da generazioni si avventura rifiutando l’aiuto dei camion. Per strada chiedo a Carmelina la ragione per cui si oppone a questa pratica e quindi conservi la vecchia: «Ti posso sicuramente dire che costerebbe meno». Quanto spendete? «Circa 50 mila euro. E poi bisogna chiedere le autorizzazioni». A chi? «Vuoi l’elenco?». Provaci. «3 Regioni, 3 province, 4 Asl di appartenenza, 25 comuni. E poi c’è naturalmente l’Anas, le questure, le prefetture e infine Trenitalia dato che attraversiamo anche i binari». Perché lo fai? «Continuarla è un modo non tanto per ricordarci da dove veniamo ma per ribadire cosa vogliamo rimanere».
Mi accorgo dopo pochi chilometri che organizzare una transumanza è simile ad allestire il Giro d’Italia. Come i curiosi che aspettano transitare i ciclisti, anche noi siamo attesi e desiderati. Per il nostro passaggio si chiudono le strade, si mobilitano i carabinieri sempre con il volto felice e rilassato. Ci muoviamo lentamente e insieme ai tanti “amici” della famiglia Colantuono formiamo un servizio d’ordine scombinato e divertito. Senza conoscerci facciamo amicizia e con Michele, fotografo, ci scambiamo pure le scarpe. Di sicuro non ci preoccupano gli odori, il fiato delle bestie. A seguirci ci sono tante donne che non rinunciano a passarsi la matita sugli occhi e il rossetto sulle labbra. Ci fermiamo a Santa Croce di Magliano ma intervalliamo con brevi soste nei campi. Ascoltiamo il canto dei grilli e le sterpi ci graffiano le ginocchia. Non c’è bisogno di annunciare il nostro passaggio. A segnalare il nostro arrivo sono le 180 campane legate al collo delle nostre mucche maremmane. Pesano sei chilogrammi ciascuno e sono opera di mastri campanari di Agnone, mi dice sempre Carmelina che mi spiega anche la necessità dell’incessante sinfonia. «Guarda bene. Le campane più grandi sono al collo delle più adulte. Sono loro a guidare le più piccole e lo scampanio serve a non perdersi».
La campana è dunque il loro navigatore, suggerisco a Carmelina che si mette per un attimo a ridere. La similitudine ci diverte e ci offre l’occasione per scattare qualche selfie. Mi accorgo che la transumanza è social e non solo televisiva, ripresa dall’operatore Rai Molise, Cosmo Zullo. «Come vedi – mi dice Marta che lavora in banca e che è partita da Milano - è proprio questo il segreto della transumanza. È un pellegrinaggio simile al Cammino di Santiago. Le fotografie sono la testimonianza di un’esperienza irripetibile». Di sicuro lo è per me che tuttavia, da siciliano, di transumanze ne ho viste ma sempre a bordo di un’auto. Perché non sono mai sceso per seguirle? Lo vedo fare a una coppia. Un uomo e una donna, entrambi ben vestiti, decidono infatti di non temere né il fango né il letame. Si uniscono tenendosi per mano. Scopro che a farlo sono anche il questore di Campobasso, Mario Caggegi, e il prefetto. Anche loro si confondono nella folla e allentano la tensione. Dopo quasi due giorni di cammino arriviamo dunque a Ripolimosani, un grazioso paesino custodito come un presepe. È già Campobasso. Carmelina mi anticipa che è prevista la sosta notturna. Riposeremo per cinque ore a contrada Quercigliole dove sono già stati predisposti, da Nicola di Niro, i tavoli per la cena e i letti da campo. Ecco, mi sono dimenticato di presentarvelo. E’ responsabile del Moligal, l’Agenzia per lo Sviluppo Rurale del Molise, oltre a essere soprattutto incaricato al vettovagliamento della transumanza. Il nostro vivandiere ha provveduto a fare la spesa.
Questa è la lista: 122 kg di pasta; 100 litri di vino; 244 birre; 25 kg di salsiccia fresca; 27 kg di salsicce secche; 50 kg di pane; 500 bottiglie d’acqua; 20 caciocavalli. Sono numeri da sagra. Ma cos’è la transumanza se non una festa di paese? Non esiste un numero di invitati. Qui basta avvicinarsi per ottenere un posto al tavolo. A tutti si risponde: «Siedi e mangia». A tenerci svegli ci pensa il brontolio di due caffettiere sul fuoco che sfidano qualsiasi regola di design. Carmelina dice che riescono a far bollire fino a 30 tazze. Sono i ciclopi della caffeina. Alle Quercigliole, quando sono già le 21, e il sole è calato, viene acceso il fuoco per la notte. Saremo circa un centinaio. Scopro che a seguire Carmelina è giunto da Roma anche Cristopher. Lavora in un’agenzia internazionale: «In verità le mie origini sono molisane. Sono nato a Boiano. Anche io transumo, torno appunto alla terra. La parola è composta da trans e humus. La trovo bellissima».
Chiacchierando di agricoltura e filologia ci addormentiamo su alcuni letti da campo e ci proteggiamo dall’umidità con coperte. Nicola di Niro ha conosciuto i Colantuono per caso, anzi, per strada. È accaduto dieci anni fa: «Posso dirlo? All’inizio li ho presi in giro. Dissi: “Giocano a fare i nomadi”». E invece? «E invece mi sono dovuto ricredere. È finita che mia figlia ha fatto una tesi di laurea sulla transumanza e che adesso mi batto per far si che diventi patrimonio immateriale dell’Unesco». Quando? «L’anno prossimo a novembre dovrebbe avvenire la pronuncia». La speranza è molta e le Regioni che hanno deciso di sostenere la candidatura sono adesso ben cinque: Lazio, Molise, Puglia, Abruzzo, Basilicata. Storditi dai progetti di Nicola, continuiamo il nostro percorso e finalmente ci troviamo di fronte al fiume Biferno. È questo il momento più impegnativo. Alle 7 di mattina, la mandria prova a superare le acque di questo fiume che appare quieto ma che in realtà nasconde le insidie nelle profondità.
Tutti tratteniamo il fiato e i flash esplodono. Mi sembra di vedere raddoppiare i fotografi, tutti con cavalletti. Mi ricordano i vecchi dagherrotipi. Guidati da Franco, il fratello di Carmelina, che indossa un trench americano di quelli che si vedono solo nei film di Sergio Leone, la mandria passa il fiume senza difficoltà anzi con un moto di spavalderia. Esultiamo tutti e ci arrampichiamo verso la frazione di Torella. Ad attendere Carmelina è Pasquale Luciani, un veterinario simpaticissimo che si è vestito con mantella, pantaloni di fustagno. Gioca a fare il massaro e regala alla nostra Carmelina un pastore abruzzese chiamato Leone che raccomanda di non confondere «con i pastori maremmani, cani che ormai fanno sfilare sui tappeti». Leone - spiega questo allegro dottore - deve difendere la mandria dai lupi ma senza attaccare. Il suo compito è frapporsi, stare in mezzo. A benedirci arriva perfino Don Eric, un prete senegalese, che con il suo messale ci ferma e ci impone la preghiera. Come si capisce, ci ubriachiamo anche di fede, ma a colpirci sono ancora i bambini che si stringono vicino a Carmelina come fosse la loro beniamina, una Giovanna d’Arco. Vitalina, maestra che ha accompagnato un gruppo di bambini da Vasto a Frosolone, pensa che a furia di tecnologia ci siamo dimenticati di mostrare ai nostri piccoli la campagna. «Guardali. Sono sorpresi dal passaggio di una mucca. Ormai sono diventati animali esotici». È vero.
Vedo tutta una scolaresca incantarsi e spalancare la bocca, cadere nella magia come Alice cadeva nel pozzo. È la loro giornata particolare ma è anche la transumanza che sta per concludersi e svanire appunto come un mondo di fiaba. Stanchi e provati, siamo rinfrancati dall’affetto degli abitanti. Ci acclamano come i mille che hanno fatto l’unità e quindi un’impresa. Ai loro occhi abbiamo fatto la storia ma a noi invece ci prende la malinconia. Stiamo per separarci. Tutti omaggiano Carmelina e c’è da scommettere che per lei sarebbe un plebiscito se solo si votasse. Mi accommiato pure io nonostante i tentativi di blandirmi con ricotta e verdure saltate, salami e vino fresco. Nei volti di ognuno sembrano passare le solite domande: e domani? E adesso? Ci rivedremo? Io risalgo in auto e viaggio verso l’aeroporto. Mi si chiudono gli occhi. Non è stata una fantasticheria. Per fortuna (ma non tanto) a testimoniarlo, rimangono le mie scarpe...