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July 10 2017
Siamo abituati a immaginare Douglas Preston chino su una scrivania a scrivere thriller, sempre in coppia con Lincoln Child. Invece lo scrittore americano è anche un vero esperto di archeologia, principale materia degli articoli che pubblica su National Geographic e ha un lungo passato come editor delle pubblicazioni del Museo di Storia Naturale di New York. Forse per questo connubio tra conoscenza didattica e penna capace di rapire anche il lettore più distratto è stato scelto per partecipare alla spedizione raccontata nel memoir La città perduta del dio scimmia (Rizzoli, 2017): una vera e propria caccia a una leggendaria città precolombiana nell’impervia foresta honduregna.
Il mito della Città bianca
La leggenda della Città del dio scimmia, meglio conosciuta come Città bianca, appassiona archeologi e avventurieri da circa cinquecento anni, ovvero da quando per primo Hernàn Cortés la nominò in una lettera. Da allora le testimonianze di ipotetici avvistamenti si sono moltiplicate, dando vita a svariate spedizioni per localizzarla, spesso infruttuose, mortali o del tutto fasulle.
Sembra assurdo che all’alba del ventunesimo secolo vi siano ancora parti del pianeta inesplorate, ma la regione della Mosquitia, completamente ricoperta da un’impervia foresta pluviale e circondata da alte vette, metterebbe alla prova anche l’esploratore più esperto. Ai pericoli naturali, che hanno scoraggiato le prime spedizioni, si sono aggiunti nella seconda metà del Novecento quelli determinati dall’uomo: la regione, scarsamente sorvolata e di difficile attraversamento, è in gran parte controllata dai cartelli della droga. Oltre alle difficoltà pratiche e logistiche, inoltre, la convinzione che, molto probabilmente, non esistesse nessuna Città bianca, ha rallentato ulteriormente le ricerche.
Vecchi farabutti e nuove tecnologie
Preston, formalmente nei panni del giornalista di National Geographic, si fa assoldare per partecipare a una spedizione che inizialmente sembra non abbia nessuna possibilità di riuscita. A voler ardentemente organizzare il viaggio alla ricerca della Città perduta è Steve Elkins, eccentrico regista ed esploratore che mette insieme un gruppo che sembra uscito da una storia di Indiana Jones, o direttamente da Jurassic Park. Uniti con l’unico scopo di trovare la Città Bianca ci sono scienziati professionisti (ma non per questo meno eccetrici), una troupe cinematografica, un fotografo e alcuni farabutti, il cui scopo è, letteralmente “risolvere i problemi” e la cui vita, più adatta a un film di Al Pacino che a una spedizione scientifica, è raccontata con dovizia di particolari per l’incredulità e lo spasso del lettore.
La città perduta del dio scimmia non lascia spazio solo alla giungla honduregna, con i suoi serpenti letali, e ai misteri archeologici: tra le sue pagine viene approfondita anche un’incredibile tecnologia, il Lidar. Il Lidar è la tecnica di telerilevamento grazie alla quale è stato possibile fare i primi rilievi delle zone in cui Elkins ipotizzava potessero trovarsi le rovine di un’antica civiltà: la missione umana, insomma, è consistita in un primo momento nel posizionamento della tecnologia e nella lettura delle analisi. Solo in un secondo momento gli occhi umani sono andati a verificare quello che gli occhi del Lidar avevano trovato. Il Lidar, già utilizzato per mappare zone archeologiche, nasce per scopi militari e per studi della NASA, e non viene certo concesso a cuor leggero a qualunque gruppo di scapestrati con un sogno nel cassetto: è la prova che Elkins sapeva il fatto suo e, soprattutto, sapeva cosa cercare.
Ma quindi esiste davvero una Città bianca? E finalmente, dopo secoli, è stata riportata alla luce? Non vi svelo il finale, perché questa avventura archeologica è troppo appassionante per meritarsi uno spoiler.
Douglas Preston
La città perduta del dio scimmia
Rizzoli, 2017
368 pp., 20 euro