Economia
September 24 2012
Sono in molti a credere che la crisi che dal 2007 paralizza le economie più avanzate del pianeta sia un prodotto della speculazione finanziaria. Non sono solo i populisti alla Grillo che vedono nell’arricchimento di un pugno di finanzieri senza scrupoli l’origine della crisi. L’idea che i nostri guai siano il frutto amaro della finanziarizzazione dell’economia è molto diffusa anche nella sinistra e nella destra più assennate, e certamente è penetrata nel senso comune di moltissime persone.
C’è anche del vero, in questo genere di credenze: la crescita smisurata del peso dei prodotti finanziari rispetto alle attività reali è uno dei veicoli che ha reso la crisi così grave, ampia e difficile da controllare. Sarebbe però un errore pensare che quella sia l’origine ultima delle difficoltà in cui tanti paesi si stanno dibattendo in questi anni. In un libro pubblicato recentemente dalla Einaudi (Terremoti finanziari), il grande economista indiano Raghuram Rajan ricostruisce pazientemente le origini profonde della crisi e ci ricorda che alla sua base ci sono una serie di fratture nascoste, o «linee di faglia», che si sono amplificate negli anni e hanno portato, alla fine, al collasso del 2007-2008, prima con la crisi dei mutui subprime, poi con il fallimento della Lehman Brothers. La crisi è l’evento che segnala l’esistenza di tali fratture nascoste, e al tempo stesso è un meccanismo per ripararle.
Ma le stiamo riparando? Se guardiamo alle maggiori economie europee, la risposta non è a senso unico. Prendiamo una prima linea di faglia, l’andamento divergente delle bilance commerciali. Qui effettivamente si ha un riequilibrio, con la Germania che, pur rimanendo in attivo, peggiora i suoi saldi (-1,9 per cento), mentre il Regno Unito, la Polonia e, soprattutto, la Spagna, che avevano i saldi più negativi nel 2007, li migliorano avvicinandosi al pareggio. Al miglioramento non partecipa l’Italia, che era vicina al pareggio nel 2007, mentre nel 2011 ne risulta più lontana di 1,2 punti.
Questo schema di riequilibrio si ripete per il costo del lavoro per unità di prodotto e per la produttività. I paesi forti (Germania e Francia) registrano aumenti del costo del lavoro e un sostanziale ristagno della produttività, i paesi più deboli (Spagna e Polonia) registrano invece un costo del lavoro stabile e significativi aumenti della produttività: +7,8 per cento la Spagna, +12,3 per cento la Polonia.
E l’Italia? L’Italia, purtroppo, non contribuisce al riequilibrio. Fra le sei economie più grandi d’Europa, la nostra è l’unica che peggiora su tutti i fronti. La sua bilancia commerciale si deteriora di 1,2 punti, mentre in Spagna migliora di 5,9 punti. Il suo costo del lavoro per unità di prodotto aumenta di 2,6 punti, mentre in Spagna diminuisce dello 0,5 per cento. Ma il segnale più negativo viene dalla produttività.
Nel quinquennio della crisi tutte le grandi economie europee hanno comunque aumentato la produttività. Tantissimo la Polonia e la Spagna, pochissimo la Germania, che forse ha badato più a salvare posti di lavoro che ad aumentare la competitività. L’Italia, però, è l’unica fra le grandi economie in cui la produttività diminuisce, sia pure di poco (-0,4 per cento). La crisi, dunque, sta provocando importanti riaggiustamenti fra le maggiori economie europee, ma l’Italia non sembra parteciparvi granché.
Si potrebbe pensare, e il governo sembra pensarlo, che ciò sia dovuto alla scarsa collaborazione fra le parti sociali, sindacati e Confindustria innanzitutto. Se questa diagnosi fosse corretta, molto potremmo e dovremmo aspettarci dai timidi tentativi di concertazione in corso in queste settimane. Ma purtroppo si tratta di una aspettativa mal riposta. Non tanto perché le parti sociali potrebbero anche non trovare alcun accordo, ma perché le radici della nostra scarsa produttività vanno molto al di là della buona o cattiva volontà di lavoratori e datori di lavoro.
Sfortunatamente quelle radici stanno in cose che non si possono cambiare rapidamente: costi spropositati degli input, dall’energia elettrica al denaro, una rete asfissiante di oneri burocratici, un fisco che scoraggia gli investimenti, che sono la via maestra per aumentare il prodotto per occupato.
Spesso le nostre imprese non sono efficienti, è vero, ma la domanda è: una efficiente impresa finlandese riuscirebbe a stare sul mercato se dovesse operare in Italia? E c’è anche la controdomanda: una inefficiente impresa italiana, che strapaga l’energia, il denaro, le assicurazioni, la giustizia, che deve cedere allo Stato il 68,6 per cento del profitto commerciale, non diventerebbe improvvisamente e miracolosamente efficiente se potesse operare, per esempio, in Finlandia?