Economia
December 19 2019
In un numero di metà ottobre della Welt am Sonntag, edizionale domenicale del quotidiano di area moderata Die Welt, è apparso un editoriale controverso. Titolo: «L’industria automobilistica tedesca ha ancora due anni di tempo». Nell’articolo Martín Varsavsky, imprenditore seriale di origine argentina e guru del mondo delle telecomunicazioni, dava l’ultimatum alle case automobilistiche tedesche che «se non si muoveranno abbastanza in fretta, faranno la stessa fine di quei giornali che non hanno digitalizzato i loro modelli di business per tempo». Estinti. Una provocazione? Forse. Ma è vero che oggi sui cieli tedeschi si sono addensate molte nuvole nere sopra la filiera dell’auto, architrave dell’intero comparto manifatturiero in Germania.
Alcuni guai i tedeschi se li sono creati in casa, fra Stoccarda (sede del gruppo Daimler) e Wolfsburg (quartier generale di VW). Per esempio il Dieselgate, lo scandalo delle emissioni taroccate esploso nel 2014, continua a produrre i suoi effetti: ancora lo scorso ottobre Daimler ha richiamato oltre 250 mila veicoli commerciali equipaggiati con software illegali. La macchia sulla credibilità dei produttori di autoveicoli appare indelebile.
Recuperare la fiducia della clientela nazionale e globale è diventato oggi un imperativo assoluto del sistema-Germania. Perché, come si legge nel lungo rapporto su Il futuro dell’industria automotive tedesca pubblicato a fine 2018 dalla Fondazione Friedrich-Ebert (Fes), la gestione del Dieselgate (un misto di falso ideologico e comportamenti omissivi) «non ha danneggiato solo il comparto auto ma potrebbe contaminare anche il marchio principale made in Germany». L’obiettivo non è più solo salvaguardare gli alti livelli di occupazione, obiettivo caro all’economia sociale di mercato di scuola renana, ma tutelare la reputazione di un intero sistema-Paese.
Uno studio dell’Istituto dell’economia tedesca (Iw) con sede a Colonia dimostra poi che il 47 per cento delle richieste di brevetto depositate presso le autorità federali in Germania fra il 2005 e il 2016 nei comparti elettronica e digitalizzazione ha avuto origine proprio dal settore automotive. Nel periodo in esame, le richieste di brevetti da parte delle case automobilistiche sono aumentate del 70 per cento mentre nello stesso decennio l’attività brevettuale delle altre aziende tedesche è calata del 16 per cento. L’industria dell’auto è sempre il principale (se non unico) volano dell’innovazione in Germania.
Altre difficoltà arrivano da lontano. La Cina, per esempio, è stata per oltre dieci anni il miglior alleato dei tedeschi, grazie alla sua corsa che sembrava non finire mai. Le immatricolazioni di auto nel gigante asiatico sono passate dagli 11 milioni del 2000 ai 24,7 milioni nel 2018; e un veicolo su cinque era tedesco. Da alcuni mesi, invece, il dragone cinese ha rallentato e non sembra più garantire uno sbocco sicuro per le esportazioni made in Germany, ovvero l’acquisto di auto tedesche prodotte sul suolo cinese. Forse il 2019 si chiuderà ancora in attivo per le case automobilistiche in Germania, ma il trend è al ribasso: a settembre 2019, quattordicesimo mese consecutivo in cui il mercato cinese delle quattro ruote si è contratto, «la vendita di auto tedesche è calata del 30 per cento rispetto a settembre 2018». Lo conferma a Panorama Thomas Puls, economista senior dell’Iw di Colonia, esperto di infrastrutture e mobilità.
Ai problemi specifici dell’industria tedesca si aggiungono tendenze a carattere globale: fra queste, la corsa ai veicoli a trazione elettrica da una parte e quella alla guida assistita, l’auto che si guida da sola, dall’altra. Cambiamenti di natura strutturale che nel medio periodo rivoluzioneranno la mobilità come la concepiamo oggi. Così a metà novembre Daimler, il gruppo con il marchio Mercedes-Benz, ha annunciato un taglio netto di circa 1.100 dipendenti fra quadri e dirigenti per superare la crisi più difficile degli ultimi decenni. Meno manager, minore produzione, più investimenti in ricerca e innovazione: il futuro dell’auto passa da qui.
La sfida non è solo per Daimler: Con 400 miliardi di euro l’anno, oggi il fatturato dell’automotive tedesco è il più grande di tutto il settore industriale e allo stesso tempo il più importante per ii commercio con l’estero: nel 2016, si legge ancor nel rapporto della Fes, il comparto ha generato vendite per 256 miliardi.
Questo colosso non ha però fondamenta solide: «A differenza di quello italiano o francese» riprende Puls «negli ultimi dieci anni l’automotive tedesco ha avuto un successo strepitoso in Asia, soprattutto in Cina, ma anche nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Avere successo grazie all’export significa però esporsi a grossi rischi. Nel Regno Unito il mercato dell’auto è in rapido declino e con gli Stati Uniti è in atto una guerra commerciale». Per adesso, osserva ancora l’economista, le difficoltà in arrivo dall’Oriente non si stanno ripercuotendo direttamente sui produttori tedeschi. «Porsche, Audi, Mercedes e Bmw stanno ancora andando bene in un mercato in declino». L’indotto, invece, è messo male. «Quelli più in difficoltà in Germania sono i fornitori del settore». Puls nomina a titolo di esempio giganti come Bosch, Schaeffler e Continental «che forniscono componenti per veicoli a propulsione convenzionale anche per le case non tedesche già in calo».
Se la componentistica per le auto a benzina è destinata al declino, quella specializzata per motori diesel è ormai in crisi nera. Già a ottobre Bosch ha annunciato un taglio di 2 mila posti, seguita a fine novembre da Continental che manderà a casa 5.500 dipendenti: fra quelli a rischio ce ne sarebbero 750 nei due stabilimenti in provincia di Pisa.
Ad azzoppare il comparto auto a gasolio è arrivato prima il Dieselgate, poi le multe milionarie comminate dai giudici statunitensi ed europei ai produttori di auto taroccate, infine si sono registrate le sentenze dei giudici amministrativi e le ordinanze dei sindaci tedeschi uniti nel vietare la circolazione dei mezzi a gasolio nelle aree urbane più densamente abitate e inquinate. Ironia della sorte, «oggi i modelli diesel 6B sono in teoria compatibili con le più stringenti norme europee in materia di emissioni» osserva Puls. Questa volta però i mercati esteri non daranno una mano alla Germania perché «in Cina, in India o negli Stati Uniti la macchina diesel non la vuole nessuno».
Non bisogna credere però che si tratti di una presa di coscienza ecologista: «Per effetto del Dieselgate sono tornate a crescere le vendite dei Suv a benzina che consumano di più, con il risultato che le emissioni medie di CO2 delle nuove auto immatricolate in Europa stanno risalendo. E questi Suv continueranno a inquinare l’aria per i prossimi 15 anni».
Il futuro dovrà invece essere elettrico. Puls ricorda che dalla Cina all’Europa nuove leggi «impongono il progressivo abbandono dei veicoli a carburante fossile sul medio termine, e la transizione inizia adesso».
Una serie di comunicazioni da parte di alcune grandi case automobilistiche lo conferma. Il 12 novembre il patron della californiana Tesla, Elon Musk, ha annunciato l’imminente sbarco in Europa con l’apertura di una linea di produzione di mezzi elettrici nei pressi di Schönefeld, appena fuori Berlino. La Gigafactory 4, ha promesso Musk, sarà attiva dal 2021. L’annuncio è stato accolto con favore dal sindaco della capitale tedesca e dal primo ministro della regione Brandeburgo.
Meno entusiasti saranno stati i produttori tedeschi dell’auto, insidiati in casa dal leader mondiale dell’auto elettrica. Il giorno dopo la sfida di Musk, Daimler ha fatto cadere la sua scure sugli impiegati nel settore dell’auto a carburante, mentre il 15 novembre è stato il turno di Volkswagen: il colosso di Wolfsburg investirà 60 miliardi di euro mettendo l’accento sulla guida autonoma e sull’elettrificazione.
La cifra è di 16 miliardi più alta di quella dichiarata nel 2018 sugli stessi obiettivi, un segnale di come anche i prudenti tedeschi abbiano capito che il vento è girato e soffia forte. Ecco perché nel giro dei prossimi dieci anni, VW metterà sul mercato 75 nuovi modelli elettrici e 60 a trazione ibrida. Novembre si è chiuso con Audi (gruppo VW) che ha annunciato il taglio di 7.500 posti di lavoro per diventare «più agile ed efficiente» e risparmiare 6 miliardi di euro, seguita da Daimler che, oltre a 1.000 dirigenti, ha confermato il licenziamento di altri 9 mila lavoratori ed economie per 1,4 miliardi. «L’industria automobilistica è nel mezzo della più grande trasformazione nella sua storia» ha detto la casa di Stoccarda.
Il solo annuncio di Tesla vale però 10 mila nuovi posti di lavoro: possiamo dedurne che la crisi dell’auto in Germania è risolta in partenza? «No» risponde Puls «perché la produzione di un veicolo elettrico richiede molta meno manodopera di uno con il motore a scoppio. Un po’ perché la componentistica è più semplice, un po’ perché il suo assemblaggio è largamente automatizzato, il che, di nuovo, è una rovina per i fornitori specializzati».
Puls ritiene dunque che «soprattutto nel breve periodo c’è da aspettarsi un calo occupazionale causato dalla trasformazione tecnologica appena avviata, con meno addetti necessari in futuro».
L’economista osserva ancora che il mercato dell’auto in Europa è destinato alla stagnazione, se non a un calo, nei prossimi due lustri: «Al tempo stesso, nel settore automotive, ci aspettiamo un aumento della produttività del 2 per cento l’anno: se combiniamo i due fattori otteniamo già meno posti di lavoro. Non dimentichiamo poi le altre conseguenze sull’indotto: un’auto elettrica richiede meno manutenzione di una vettura tradizionale».
Gli analisti del Center automotive research dell’Università di Duisburg-Essen hanno provato a quantificare il calo immaginando il taglio di 234 mila posti di lavoro nello sviluppo e produzione di motori a combustione solo parzialmente compensato dall’assunzione di 109 mila nuovi addetti per sviluppo e produzione dei veicoli elettrici. Con una perdita secca di 125 mila posti di lavoro: da quota 834 mila oggi a quota 709 mila nel 2030.
Anche Volkswagen ammette che la strada è in salita. Due giorni dopo aver annunciato il mega-investimento sui veicoli elettrici e a guida assistita, il direttore finanziario del gruppo, Frank Witter, ha ammesso che «la festa è finita» notificando un taglio di 5 punti percentuali all’utile previsto a causa delle «mutate condizioni del mercato»: a causa cioè di Brexit, Cina e della guerra dei dazi.
Qualche ragione di ottimismo? Per Puls la Germania non è messa male nella corsa verso il domani. «I tedeschi non sono i pionieri dell’elettrico, al primo posto c’è Tesla; però Bmw è fra i primi cinque produttori mondiali di auto elettriche». La Cina, dal canto suo, è invece il primo produttore di batterie elettriche per autoveicoli, «ma anche là il mercato è in declino dopo che il governo ha tagliato i sussidi a favore dell’auto elettrica, con il risultato che oggi il mercato globale di questi veicoli è fermo». Il prezzo medio di un’auto elettrica oggi è ancora alto, e l’economista dell’Iw non crede che la loro maggiore diffusione porterà modifiche ai modelli di proprietà: cinesi, europei e americani continueranno a comprare auto per il proprio uso esclusivo. Sarà piuttosto l’avvento, un domani, dell’auto a guida assistita a cambiare le regole. «Se alla fine sarà un robot a guidare al nostro posto, non sarà necessario essere proprietari del veicolo: sarà come chiamare un taxi».
Mentre produttori e analisti si scervellano nell’immaginare l’auto tedesca del futuro, continuano a fare notizia gli scandali a ripetizione di quella del presente. A fine novembre l’Antitrust tedesco ha comminato una multa complessiva da 100 milioni di euro a VW, Bmw e Daimler per aver fatto cartello beneficiando di prezzi dell’acciaio inferiori a quelli di mercato.
Il trio di costruttori tedeschi è lo stesso accusato la scorsa primavera dalla Commissione Ue di accordi illegali per impedire l’immissione sul mercato di nuove tecnologie anti-inquinamento. Se Bruxelles proverà l’accusa, le tre case rischiano multe salatissime. Date le premesse e un Dieselgate senza fine, il futuro dell’auto elettrica in Germania avrà certo bisogno dell’apporto di molti capitali per la ricerca e l’innovazione, ma anche di una robusta iniezione di trasparenza. n
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