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June 10 2013
Che cosa ci trattiene oggi dal definire i focolai di guerra che infiammano tutto il Medio Oriente come l’inizio di una grande “guerra di religione”? Certo, la storia insegna che le guerre, anche quelle religiose, sono innescate da motivazioni politico-economiche (si vedano le Crociate). Resta il fatto che la “guerra di religione” sia ormai una realtà non soltanto in Siria ma anche in Iraq (e presto potrebbe estendersi al Libano). Una guerra che ha per protagonisti i due rami opposti dell’Islam, sunnismo e sciismo, e che almeno in parte spiega sia la nascita delle Primavere arabe sia dei conflitti che ne sono seguiti.
Ora, nonostante l’Occidente stenti a comprenderlo o riconoscerlo, sunniti e sciiti si considerano alternativi gli uni agli altri e né gli uni né gli altri accettano del tutto i confini nazionali nei quali si ritrovano. Per molti di loro, infatti, la guerra è trasversale agli Stati nazionali, ed è tesa piuttosto a creare un unico grande Medio Oriente islamico, riprendendo quel sogno del Grande Califfato interrotto dalle potenze europee.
Le differenze tra sciiti e sunniti
In questa sconfinata guerra i sunniti, ovvero i seguaci della Sunna (la consuetudine), costituiscono la corrente ortodossa e maggioritaria. Mentre gli sciiti (il cui nome deriva dall’espressione abbreviata “fazione di Alì”) sono nettamente inferiori di numero: fatto cento il numero di musulmani, la proporzione è almeno di settanta-trenta a favore dei sunniti.
La divisione ebbe origine in seguito alla morte di Maometto, nel 632 d.C., quando i fedeli si contesero l’eredità religiosa e politica tra Abu Bakr, amico e padre della moglie di Maometto, ed Alì, cugino e genero del Profeta. Una discordanza che non si sarebbe mai del tutto sopita, né a livello teologico né politico.
Devoti alla tradizione, secondo i sunniti l’eredità e la guida dell’Islam spettano a coloro che seguono gli insegnamenti di Maometto, senza particolari legami di sangue. Al contrario, gli sciiti hanno sempre ritenuto che il successore di Maometto dovesse essere necessariamente un consanguineo del Profeta.
I Paesi coinvolti
Oggi, dopo quattordici secoli in cui poco è cambiato da questo punto di vista, sembra profilarsi una “Guerra dei Trent’anni” dell’Islam. È solo questione di definirne l’intensità, ma il conflitto è già in atto in molteplici Paesi: come in Siria, dove la minoranza sciita “alawita” al potere lotta contro la maggioranza sunnita e dove, non a caso, gli sciiti di Hezbollah provenienti dal Libano, nel momento di maggior difficoltà del regime, sono accorsi al fianco del presidente Assad per impedirne la capitolazione. Allo stesso modo, i combattenti sunniti di Jabhat al Nusra si sono saldati alle fazioni ribelli.
Anche in Iran lo sciismo è al potere e sostiene il regime siriano con uomini e mezzi. Utile in quest’ottica è ricordare che, chiunque s’insedierà come nuovo presidente nella repubblica Islamica (si vota il 14 giugno) è già espressione del clero sciita, che trova nella Guida Suprema Ali Khamenei il punto di riferimento irrinunciabile. Khamenei, non a caso, ha agito secondo Costituzione in modo da estromettere dalla competizione i candidati nazionalisti o moderati, poiché sa bene che la Guerra dei Trent’anni, qualora dovesse estendersi, va combattuta nell’alveo di ferrei princìpi teologici, senza cadere nel secolarismo di matrice occidentale che costituisce una minaccia al suo potere.
A Istanbul, in Turchia, oltre alla componente progressista e laica espressione delle università e del progresso economico, sono le periferie povere sciite che si ribellano al premier Erdogan e che, se la rivolta continuerà a soffiare, costituiranno certamente l’elemento più pericoloso da fronteggiare per uno dei Paesi più importanti del Medio Oriente, in pieno sviluppo ma non ancora una democrazia matura.
Mentre in Iraq la guerra civile non è mai finita ed è anzi degenerata a suon di bombe (oltre duemila morti dallo scorso anno) sempre a causa dello scontro tra il governo che, pur instabile, resta in mano alle forze sciite, e la minoranza sunnita, che non lo riconosce.
Qatar e Arabia Saudita sono, invece, i Paesi sunniti che finanziano maggiormente la “Guerra dei Trent’anni”: in particolare, è l’attivismo del Qatar a sobillare gli animi dei sunniti mentre l’Arabia Saudita, pur condividendone le ragioni, al momento è più assente a causa del fatto che la famiglia reale è dilaniata al proprio interno.
Da notare, infine, che in tutti gli Stati del Golfo sono presenti “eserciti” di lavoratori immigrati di religione sciita che, in alcuni casi come negli Emirati Arabi e in Quwait, superano ampiamente la stessa popolazione locale.
Chi vincerà questa guerra fratricida è presto per dirlo. In ogni caso, l’Occidente - se mai dovesse esserne coinvolto più di quanto già non lo sia - non deve dimenticare le lezioni del passato perché capita che le ragioni politico-economiche da sole non bastino a offrire una spiegazione, mentre le ideologie e la religione restano sempre armi molto potenti.