La Grande Trasferta: cosa può fare un Papa e perché dovremmo imparare da lui


Abbiamo lasciato Guido Morsellinella sua Roma senza Papa: neanche 24 ore dopo, ecco là che non darebbe più conto parlarne, e siamo già anzi nella fase della perplessità riguardo il Papa neo-eletto.

Ora, io non mi intendo di liturgia, ma mi risulta che non ci sia ancora stata quella che se si trattasse di un Presidente americano chiameremmo “cerimonia di insediamento”. Quindi, tecnicamente, siamo ancora in una specie di vacuum della dirigenza, e in ogni caso vale la pena ascoltare il racconto di Morselli.

La Chiesa è in crisi, c’è un’emorragia di fedeli in tutto il mondo, attirati da sètte e taumaturghi, maghi e squadre di calcio; i non fedeli, poi, ci si mettono anche loro: e la Chiesa è troppo conservatrice, e non si può ancora pensare che, e siamo nel 2013, e per favore.

Ho un cugino che si è separato qualche anno fa: adesso ha conosciuto una donna e vorrebbe risposarsi: «Ti rendi conto», mi fa, «secondo loro io adesso dovrei prima divorziare, e ci vogliono almeno due anni, e poi, solo allora, potrei andare davanti all’altare con la donna che amo. Ti pare giusto?». «Sì», dico. Mi pare giusto eccome. Se non ti piacciono le regole, non puoi rovesciare il tavolo. Non puoi giocare a tennis e imporre all’avversario e all’arbitro le regole del cricket. Non puoi voler entrare nel Club Sassone Dei Misogini Uniti, se sei donna, o se proprio ci tieni provaci, ma quando ti metteranno alla porta non gridare alle scandalo, non fare la faccia indignata della pasionaria ferita nel cuore.

Io non so cantare, e anzi una volta mi arrivò a casa, senza che l’avessi chiesta, un’enciclopedia della musica leggera, che rimandai sdegnosamente indietro; questo mio atteggiamento, irriguardoso quanto vi pare, per carità, ma legittimo, comporta tra le altre cose che non mi sognerei mai di andare a fare i provini di Sanremo giovani, e che non mi verrebbe nemmeno in mente di presentare un’istanza alla giuria affinché riveda le sue regole di selezione dei cantati; ciò non toglie, tuttavia, che Sanremo lo guardo, e mi diverto anche molto.

Il mio rapporto con l’elezione di Francesco I è più o meno questo: come ho già detto, la kermesse mi diverte, la dimensione storica dell’evento mi esalta, e come mi succede davanti a un film capace di scuotermi mi commuovo, e sinceramente.

La mia etica della non ingerenza impone che neanche alla Chiesa e ai suoi esponenti debba interessare in che modo io – che non faccio parte del loro club come loro non fanno parte del mio nucleo familiare o del CDA dell’azienda che mi paga o del team di medici che si prende cura della mia salute o del mio circolo di bridge – gestisco la mia vita, la mia ovulazione o il destino dei miei spermatozoi, la mia morte. Ma andiamo fuori tema.

Morselli, dicevo: nelle vesti di don Walter, sacerdote emigrato in Svizzera tempo fa, è tornato in una Roma del futuro (che per noi è il recente passato) per un pellegrinaggio-aggiornamento teologico. La città che trova, in questa fine di secolo ventesimo, è una Roma-location, tristemente turistica, «un panorama di tetti fatiscenti, lontani capitelli di vecchie colonne. E lo sciacquone che non funziona» e, soprattutto, è una Roma senza Papa: Giovanni XXIV – un irlandese di mezza età, che non fa discorsi e non viaggia, fidanzato, si dice, con una teosofa di Bengalore – ha abbandonato il Vaticano e ha trasferito la Sede Apostolica in una inappariscente Residenza, simile a un complesso di motel, a Zagarolo.

Don Walter ha scritto un trattato con l’intento dogmatico di contrastare l’eresia, in particolare quella mariana: «Non si può continuare con i polls e le interviste a discutere se la Madonna sia un’ebrea convertita come tante altre, o nella migliore ipotesi una santa».

È successo che da più parti, specie in Italia, si sono creati gruppi di cattolici eretici che vogliono mettere bocca negli affari ecclesiastici: mentre nelle alte sfere la novità del matrimonio dei preti è stata digerita, il popolo italiano, che è rimasto reazionario, manifesta il suo dissenso sino all’ostilità, «con i primi matrimoni ecclesiastici semiclandestini e protetti dai carabinieri». Ora, pare, si vorrebbe rivedere il dogma della Madonna. Don Walter, d’accordo con me, è furibondo:

«Insomma, i cattolici si schierano pro e contro la loro Patrona, pro e contro il culto che venti secoli le hanno decretato. Ma il danno maggiore sta nel farne un argomento da pubblica opinione, come l’abolizione delle carceri nella nostra repubblichetta elvetica, come lo smantellamento dei grattacieli in America o il matrimonio monosessuale in Svezia. La Chiesa moderna ha due basi, io dico un po’ grossamente: la dottrina tridentina, e il Papa. Non si sente affatto il bisogno che questo dualismo si trasformi definitivamente in Trinità con la consacrazione di uno “Spirito Santo” democratico».

Addirittura il popolo ha avuto da ridire quando alcuni teologi hanno avanzato l’ipotesi (ormai quasi accreditata) che l’apparizione della Vergine a Fatima fosse in realtà «frutto di una tecnica precorritrice (nel 1917!) del 3-D Movielife, ideata in segreto da un fisico svizzero», una specie di oleogramma su maxischermo. Apriti cielo!

E la TV non c’entra, precisa don Walter: «i laici devono essere lasciati fuori ed esautorati».

I preti, a mensa, sotto lo sguardo dolce e ispirato della gigantografia di Giovanni XXIV («dicono che abbiamo il più bel papa dei tempi moderni») sono talmente freschi e progrediti che aprono cautamente al totemismo: «passati dal latte all’ice-cream, teorizzavano una bilateralità di apostolato. Scambi di missionari fra Europa e Isole Trobriand, l’Europa iniziata ai totem e all’amore pagano come già la Melanesia al Vangelo. Giovanni XXIV sarà un papa rinnovatore». Insomma la Chiesa è pronta al cambiamento: il problema è il popolo, con la sua democrazia televisiva.

Lo strepitoso finale della visita alla Residenza del Papa a Zagarolo, qualcosa «fra il kibbuz, e la stazione sperimentale di un “Peace Corp” in zona di sottosviluppo», rivela un individuo dolce e sereno, che «vive nell’adesso», alleva serpenti, ama il silenzio e il ronzio delle api nella sua ombrosa, elusiva solitudine. Forse la grande Trasferta non è che il primo passo: l’ultimo «sarà forse alla grotta di Betlemme. O agli ombrosi pendii di Gethsemani. In quel sacro e fatidico Oriente che grazie ai progressi della tecnologia (essa pure Provvidenziale, sappiamo), i sentori, e i furori, del petrolio non ammorbano più».

Quando don Walter torna a Roma, già all’imbocco di Via della Conciliazione comprende il senso di quell’evasione dalla vischiosa politica che l’ha rovinata fin nelle fondamenta: profetico epilogo realizzato in terra da Benedetto XVI e, chissà, confermato simbolicamente, come abbandono del fasto e del cinismo oscurantista, da Francesco I, come il suo nome lascia sperare. Qualcosa da cui i politici della nostra democrazia terminale potranno finalmente prendere ispirazione.

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