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November 15 2016
"Il presidente pro-tempore dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, manifesta una visione manichea della realtà. Attorno a sé pare avere esclusivamente politici corrotti; la giustizia non funziona soltanto per colpa degli avvocati; e gli imputati assolti sono, in realtà, dei diversamente colpevoli”.
Confermato ai primi d’ottobre alla presidenza dell’Unione delle camere penali italiane, Beniamino Migliucci (nato a Bolzano 60 anni fa) mostra di non voler lasciare cadere la difficile battaglia liberale per la giustizia che ha ingaggiato fin dai primissimi giorni del suo primo mandato, nel settembre 2014. "Con le sue battute e con le sue posizioni di populismo giudiziario" attacca il penalista "il dottor Davigo cerca un consenso facile, ma io continuo a credere che la magistratura non dovrebbe cercare consenso. E le posizioni di Davigo sarebbero meno banali e più credibili se soltanto ammettesse quel che non funziona nella sua stessa categoria".
Migliucci parte dal cuore del contendere: le indagini preliminari. Da mesi l’Anm ha alzato uno sbarramento di fuoco contro la riforma del Codice di procedura penale, che è bloccata al Senato. In quella riforma, all’articolo 18, si prevede che alla fine delle indagini preliminari il pubblico ministero abbia un periodo massimo di tre mesi per decidere se chiedere il rinvio a giudizio oppure l’archiviazione. "È un provvedimento che rende ragionevole la lunghezza del processo penale" dice Migliucci "e invece l’Anm è contrarissima".
Perché? "I magistrati si lamentano che i processi sono interminabili" risponde Migliucci "e che troppo spesso finiscono con la prescrizione, ma poi rifiutano una riforma logica ed efficace. Viene quindi un doppio sospetto: o che ai pm piaccia la possibilità di tenere sotto scacco l’indagato per un tempo insindacabile, o, a voler seguire la stessa logica del dottor Davigo, che non gradiscano un invito a lavorare".
Per restare alla riforma del Codice, Migliucci rintuzza altre prese di posizione di Davigo. Il presidente dell’Anm ha dichiarato la sua perplessità davanti alle lungaggini della procedura e si è chiesto: che bisogno c’è di ripetere in udienza gli interrogatori già svolti davanti ai carabinieri? Ma qui il presidente dell’Unione delle camere penali alza il tono della sua critica: "Parte della magistratura da alcuni mesi sta ingaggiando una dura battaglia affermando che, per ridurre i tempi del processo, basterebbe affidarsi agli interrogatori effettuati nelle caserme in assenza del difensore al di fuori di ogni contradditorio che, pertanto, non dovrebbero avere alcun valore probatorio. Il punto è un altro, e cioè che la maggior parte dei processi si prescrive invece nella fase delle indagini preliminari dove l’unico responsabile delle lungaggini è il pm. Per questo è inutile allungare i termini della prescrizione dilatando i tempi del processo, senza considerare che dal 60 al 70% del totale dei processi si prescrive prima della richiesta di rinvio a giudizio".
Migliucci ricorda anche gli eccessi della custodia cautelare in carcere, costati 640 milioni di euro dal 1992 a oggi tra risarcimenti per errori giudiziari e ingiuste detenzioni. "In questo Paese" dice "non piace l’idea che la custodia cautelare sia l’estrema ratio. Ma il 35% di chi è in cella, oggi, è in attesa di giudizio, e non è così in nessun Paese europeo. Non siamo mai usciti dall’ombra del vecchio Codice, che parlava di libertà provvisoria: come nel film di Manlio Scarpelli, del 1971, siamo tutti sottoposti all’alea di un provvedimento restrittivo".
Anche le carceri, dove i detenuti sono oltre 54 mila, tornano a essere un problema: "Stiamo tornando a condizioni insostenibili" commenta Migliucci. Anche perché nelle nostre prigioni non si lavora, e proprio per questo la recidiva è altissima, al 65-70%. "È una situazione che lede anche il principio di uguaglianza, conclude Migliucci: "Se sono recluso nel carcere modello di Bollate, vicino a Milano, studio e lavoro; ma altrove non è così. E questo non è giusto".
Resta infine la riforma del Consiglio superiore della magistratura, che era al centro della più ampia "grande riforma della giustizia" in 12 punti, presentata dal governo Renzi alla fine del giugno 2014.
In quella riforma, si prevedeva che nel Csm si decidessero promozioni "più per merito e non grazie all’appartenenza" e soprattutto si voleva introdurre una severa divisione tra sezioni disciplinari e sezioni che si occupano di promozioni: lo slogan era “chi giudica non nomina, chi nomina non giudica“. Mille giorni dopo, nulla è ancora accaduto di tutto questo: lo stesso Csm, forse per evitare il pur minimo rischio d’interferenza da parte della politica, lo scorso settembre ha varato un nuovo regolamento che di fatto non cambia nulla. Quanto alla riforma governativa, a sua volta finita nel nulla, Migliucci critica la stessa composizione della commissione che se n’era occupata: “Era sbilanciata, su 27 componenti, 12 erano magistrati“.