La Ruota delle Meraviglie, un grande Woody Allen – Recensione
Eccolo, il luna-park dei desiderii. La Coney Island della mente di Lawrence Ferlinghetti trascinata nella ribollente palude dei sentimenti di Tennessee Williams, gl’impeti di Eugene O’Neill, gli Amleto e Edipo di Ernest Jones.
O perfino il “Paese delle Fate da quattro soldi” che Ginny, una Kate Winslet, mai così liquida, torbida e incandescente, appioppa come uno spregiativo nickname al leggendario parco dei divertimenti dove vive e lavora a sud di Brooklyn, sito di desiderii e di follie, di bagni e palpiti on the beach negli acerbi, erranti e indulgenti anni Cinquanta d’America.
Quando un aitante bagnino spunta all’orizzonte
Sarà perché l’iconica Ginny-Winslet, all’ombra della Wonder Wheel, la grande Ruota delle Meraviglie che dà il titolo al quarantottesimo film da regista di Woody Allen (in uscita il 14 dicembre, durata 101’) e che fa il suo giro della vita, s’è ridotta a fare la cameriera appassita e insoddisfatta in un Oyster Bar senza troppe ostriche degradato a “casa delle vongole”; e dunque schifa il suo habitat dopo aver seppellito le velleità d’attrice nell’alcol e in un matrimonio di ripiego col modesto giostraio Humpty (Jim Belushi) che l’adora ma, per così dire, ha i suoi limiti d’aplomb e di charme.
Sarà perché d’improvvisto al suo orizzonte marino appare il gagliardo leggiadro bagnino Mickey (te credo - Justin Timberlake) il quale, anche scrittore di teatro, attizza in lei ambizioni di riscatto recitativo e, non da meno, sopite lascivie: tanto da farle vagheggiare un futuro diverso in ogni senso.
Tormento, disperazione e gelosia dopo l’illusione
Tutto questo sarà. Ma sta di fatto che – purtroppo per lei - la luce dell’illusione s’accende e quasi subito si spegne e deriva nell’ossessione quando la figliastra Carolina (Juno Temple) arriva dal nulla coi suoi occhi azzurri perennemente sgranati, braccata da gangster ma abbastanza sexy e zuccherosa da far cambiare direzione al bagnino e attivare in Ginny le dinamiche della gelosia e della disperazione verso un possibile, cupo e rovinoso lutto voluto dal Fato.
Ricercatezze di sceneggiatura, struggimento e humour
A Woody Allen abbiamo visto fare cose peggiori ma difficilmente migliori di questo melodramma principesco e incantatore, escogitato sull’impronta d’una tragedia (un po’ anche greca), roccioso e asciutto nei sentimenti eppur magnetico e passionnant, sceneggiato con meditate ricercatezze tra citazioni remote ma adesive di postini sonanti e tram desideranti, vertiginoso, torrido e struggente, carico di humour serpeggiante in zone inattese, circolare nel racconto – dove tutto, alla fine, ricomincia sull’altra sponda del giorno - come il lento, inesorabile rotante moto della Wonder Wheel.
I testi sono d’una aristocratica bellezza e la recitazione di tutti è sontuosa (da ricercare e consumare, là dove è possibile, il film nella sua versione originale con sottotitoli), le musiche jazz-pop con l’intrusione passionale di Kiss of Fire decretano ancora una volta la specifica inclinazione di Allen per il genere.
Pianeti, storie, vite e epoche diverse. Ma in quanto a suggestioni siamo nei paraggi di Match Point.
Le seduzioni della fotografia di Vittorio Storaro
Poi c’è l’altro film. Che incomincia là dove finisce quello che s’è appena narrato e ne rappresenta, in qualche maniera, una sorta di espansione visiva.
È il film di Vittorio Storaro, il quale guida una fotografia ipnoticamente seduttiva con tagli di luce, angolazioni prospettiche di valore narrativo, tonalità caldissime sul giallo, l’arancio e il rosso, colori oliati sulla spiaggia-caramella: in una specie di rapimento ottico che attraversa tutto il film come una rutilante macchina dell’attrazione e delle illusioni.
Dunque il cinema stesso. Con le sue emozioni e una certa sua voglia di tornare a stupire senza bordate digitali: come ogni tanto càpita con quel signore di 82 anni chiamato Woody.
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