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La strana ricerca sulla competitività della donna

La ricerca è importante e fin qui penso che siamo tutti d’accordo. In questo caso, però, parlo di ricerca sociale e certe volte il significato e la finalità di alcuni studi mi lascia perplessa.

Ho letto di recente di uno studio condotto dall’Università della Calabria su un campione di 720 studenti iscritti al corso di economia per verificare quanto l’appartenenza al genere sia indicativa della propensione a competere. Il risultato è che no, non lo è.

Intitolato “Are Females Scared of Competing with Males? Results from a Field Experiment” (Le femmine sono spaventate dalla competizione con i maschi? Risultati di un esperimento sul campo, ndr), è stato realizzato da Maria De Paola, Francesca Gioia e Vincenzo Scoppa.

Concluso nel dicembre scorso, la percentuale degli aderenti alla ricerca non ha rilevato differenze significative fra maschi e femmine (si trattava di partecipare ad una competizione che garantiva un bonus di qualche punto al voto d’esame). Così come riportato nel sito www.lavoce.info lo scorso 28 gennaio, i ricercatori affermano in proposito: “Poiché nel nostro esperimento abbiamo cercato di neutralizzare l’influenza di altre possibili differenze psicologiche tra uomini e donne (come avversione al rischio, fiducia nelle proprie capacità, eccetera), i nostri risultati sembrerebbero indicare che proprio queste differenze – piuttosto che differenze nella propensione alla competizione – possono spiegare una eventuale tendenza delle donne a evitare la competizione e a fare peggio quando si trovano a competere”.
 Tralasciando il fatto che la sintesi mi sembra non del tutto chiara, lo specchio di Venere mi rimanda l’immagine di una conoscenza per l’ennesima volta frammentaria, separativa.

Siamo diversi, certo. Mi chiedo se sia ancora questa la domanda, se ci sia ancora bisogno di dimostrarlo. O se piuttosto sia importante indicare nuove strade per cooperare anziché entrare in competizione e dimostrare chi è il più competitivo.

Ci sono forse altri stimoli per fare meglio che non la pura competizione. Ci sono obiettivi da condividere e perseguire per il bene dell’umanità intera e l’evoluzione del pianeta in cui è opportuno e conveniente che maschile e femminile non si mettano l’uno contro l’altro. Eppure si conducono ancora ricerche finalizzate a verificare se le donne sono portate a competere o meno.

Al femminile il potere così come concepito dal maschile non interessa perché dal punto di vista energetico il potere femminile è un’altra cosa. È potere condiviso e non dominio. In parole povere il maschile è diretto. Se ha un obiettivo lo persegue seguendo una linea retta, quella da un punto di vista logico più breve, e là dove ha deciso di puntare, di solito arriva. Il rischio è che, tralasciando tutto il resto, si ritrovi poi solo alla meta. Il femminile è per sua natura circolare, si ferma ad osservare che cosa ha intorno, ad ascoltare chi ha intorno, e il rischio è che all’obiettivo non ci arrivi proprio. Hanno bisogno l’uno dell’altra. D’altronde la legge naturale che regola maschile e femminile, e ne dà il ritmo, è la complementarietà e non l’opposizione.

Il ritmo ha in sé l’ armonia, ma può diventare disarmonico se interviene un elemento di disturbo. Così è per le relazioni umane e di elementi di disturbo ne abbiamo parecchi. Viviamo in società disarmoniche e viviamo male.

Quando maschile e femminile stanno insieme in armonia - seguendo il ritmo naturale delle cose, quello che abbiamo perso eppure teniamo dentro - non è che la questione si semplifichi. È che l’ impossibile diventa possibile. Vale la pena, allora, lavorare ancora per indagare se uomini e donne sono gli uni più competitivi degli altri o varrebbe la pena indirizzare tempo, energie e talenti su nuovi modi di curare il nostro piccolo giardino e il giardino del mondo?

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