(Getty images, Drew Angerer)
Dal Mondo

L'addio impossibile di Trump alla corsa per la Casa Bianca

Sono sondaggi catastrofici quelli che stanno funestando la campagna elettorale di Donald Trump. L'inquilino della Casa Bianca sembra in forte difficoltà sia a livello nazionale che in alcuni Stati chiave (come la Florida e il Michigan). Una situazione problematica, che ha portato qualcuno a ipotizzare la possibilità di un ritiro del presidente. A valutare questo scenario è stato, a fine giugno, il corrispondente di Fox News, Charles Gasparino, che su Twitter ha scritto: "I funzionari del Partito Repubblicano stanno ventilando per la prima volta l'ipotesi che Donald Trump possa abbandonare la campagna elettorale, se i suoi numeri sondaggistici non migliorano. Durante il fine settimana, ho parlato con alcuni esponenti importanti; uno ha descritto la mente attuale di Trump come fragile". Gasparino si dice comunque "non ancora convinto" di questo scenario. Resta ciononostante il fatto che l'ipotesi stia circolando. Ed è dunque degna di essere presa in considerazione. Che cosa accadrebbe allora se Trump decidesse di ritirarsi? Un simile scenario non risulterebbe privo di problemi.

In primo luogo, sarebbe dai tempi di Lyndon Johnson nel 1968 che un presidente in carica rifiuti di candidarsi in vista di un secondo mandato. Per quanto fosse inizialmente propenso a ripresentarsi, Johnson decise alla fine di lasciar perdere, a causa della guerra in Vietnam e delle contestazioni che attraversavano gli Stati Uniti. Nel caso, si presenterebbe tuttavia una differenza sostanziale con Trump, perché l'allora presidente democratico fece un passo indietro quando le primarie del suo partito erano appena iniziate e la nomination non era quindi stata ancora assegnata. Al contrario, Trump ha blindato matematicamente la nomination repubblicana lo scorso marzo. Ragion per cui, se veramente decidesse di ritirarsi, lo scenario più probabile sarebbe quello di una convention aperta, da cui dovrebbe emergere un nuovo candidato.

Ed è qui che si porrebbe un ulteriore problema. Chi si farebbe avanti? Un'ipotesi è che possa scendere in campo direttamente il vicepresidente, Mike Pence. Ma non è automatico. E quindi potrebbero teoricamente spuntare anche quelle figure che stanno scaldando i motori per il 2024: dal segretario di Stato, Mike Pompeo, all'ex ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Nikki Haley, passando per i senatori Tom Cotton e Marco Rubio. Figure che tuttavia, in caso di un ritiro di Trump, potrebbero temere di bruciarsi politicamente: circostanza che porterebbe quindi prevedibilmente il partito a puntare su qualche nome minore. La situazione si farebbe ancor più spinosa, qualora il presidente decidesse di fare un passo indietro dopo la convention estiva. A quel punto, in base alle regole del Partito Repubblicano, dovrebbe essere convocata una nuova convention per effettuare la sostituzione.

La storia americana non conosce al momento precedenti di avvicendamento per quanto riguarda candidati alla presidenza che abbiano ottenuto la nomination. Ne esistono invece per quanto concerne la vicepresidenza. Nel 1972, la convention democratica nominò come running mate di George McGovern il senatore del Missouri, Thomas Eagleton, il quale si ritirò successivamente, quando si seppe che aveva sofferto di gravi problemi depressivi e che era stato per questo sottoposto a elettroshock. Il comitato nazionale del Partito Democratico lo sostituì dunque con Sargent Shriver. Era invece il 1912, quando – a pochissimi giorni dalle elezioni – morì il candidato repubblicano alla vicepresidenza, James Sherman. Fu così che il comitato nazionale del partito scelse di dirottare su Nicholas Murray Butler i voti elettorali del defunto.

Insomma, gli scenari appaiono alquanto ingarbugliati. E non è troppo chiaro alla fine che cosa possa accadere in caso di un passo indietro di Trump. Resta comunque il fatto che una simile ipotesi, per quanto indubbiamente possibile, risulti al momento non poco improbabile. Se è vero infatti che i sondaggi danno attualmente Trump in difficoltà, bisogna comunque tener presenti alcuni fattori. In primis, ci sono ancora quattro mesi di campagna elettorale: quattro mesi in cui può succedere di tutto. E' tra l'altro capitato in passato che i sondaggi dessero indietro nel corso dell'estate il candidato presidenziale che a novembre è infine riuscito a prevalere: si pensi a George W. Bush nel 2004 e allo stesso Trump nel 2016. In secondo luogo, non dimentichiamo che le rilevazioni abbiano sempre riscontrato non poca fatica a intercettare gli elettori dell'attuale presidente: non tanto (ovviamente) i trumpisti duri e puri ma quegli indipendenti che votano Trump pragmaticamente e che – magari – si rifiutano di farlo sapere. E' anche in questo senso che – oltre che per citare Richard Nixon – l'inquilino della Casa Bianca parla oggi spesso di "maggioranza silenziosa". In terzo luogo, va tenuto conto del fatto che la strategia elettorale di Trump poggi su considerazioni di lungo termine: il presidente non scommette soltanto su un rimbalzo positivo dell'economia ma anche sul fatto che il proprio messaggio securitario possa fare progressivamente breccia nell'elettorato americano: un elettorato che, in molti suoi settori, certo non vede di buon occhio il vandalismo contro le statue e l'occupazione anarchica dei centri cittadini (basti pensare a quanto avvenuto a Seattle). Va da sé che questo tipo di linea ha bisogno di tempo per maturare.

Infine non trascuriamo i problemi strutturali che caratterizzano il candidato democratico, Joe Biden. Molti analisti lo dipingono come una figura ecumenica, in grado di superare le divisioni del trumpismo. Il che, sostengono costoro, costituirebbe il suo vero punto di forza. Un ragionamento che, per quanto possa apparentemente funzionare, non trova tuttavia riscontro nella realtà. Ben lungi da essere un punto di forza, l'ecumenismo dell'ex vicepresidente è infatti un segno di debolezza. Biden non vuole essere ecumenico: è costretto ad essere ecumenico. Il candidato democratico deve infatti fare i conti con un elettorato potenziale oltremodo eterogeneo: un elettorato che va dai centristi all'estrema sinistra. Ragion per cui, Biden si trova ripetutamente costretto a non prendere posizione chiara su un imprecisato numero di questioni (a partire proprio dalla sicurezza). Perché sa che, esponendosi troppo, rischia emorragie di voti in una direzione o nell'altra. E' pur vero che quest'ambiguità per ora sembri funzionare, visto che i sondaggi danno l'ex vicepresidente in testa. Ma è altrettanto vero che, con il trascorrere del tempo, saranno i suoi stessi elettori potenziali a pretendere chiarezza su determinati temi. E, quando sarà costretto a schierarsi, è lì che la sua base rischia di spaccarsi irreparabilmente. E' senz'altro vero che anche Trump si rivolge a una coalizione elettorale non poco eterogenea: ma gli elettori dell'attuale presidente, pur provenendo da diverse estrazioni politiche, condividono alcuni punti ideologici (una carica antisistema, una politica estera meno aggressiva, una strategia commerciale aperta al protezionismo). Punti di contatto che, al contrario, non troviamo nell'elettorato democratico, visto che tra i centristi e la sinistra si riscontrano differenze insormontabili (dalla sicurezza alla sanità). Alla luce di tutto questo è chiaro dunque che, nonostante le difficoltà, la posizione di Trump sia meno precaria di come talvolta viene dipinta. La partita per la Casa Bianca resta quindi apertissima. E le sorprese potrebbero non mancare.

YOU MAY ALSO LIKE