Tecnologia
March 03 2018
Di fascino, l’auto che si guida da sola ne ha già guadagnato a chilometri: promette di ridurre gli incidenti, di trasformarsi in un ufficio su ruote, di pensare e agire in autonomia liberando dall’incombenza del volante, dispensando divertimento, abbattendo in contemporanea traffico e inquinamento. È un argomento che funziona, prende e appassiona. Il classico esempio di un progresso tecnologico capace di spianare abitudini virtuose e semplificare la vita. Eppure, anche la macchina robot sembra covare un lato oscuro, un risvolto preoccupante che dovrebbe spingere ad avvicinarla con cautela e un certo scetticismo. A essere maliziosi, ci sono valide ragioni per tacciarla di classismo; di identificarla come un mezzo per un inedito, spaventoso terrorismo. O, come minimo, per vedere la propria privacy messa sotto scacco.
Come rileva un articolo pubblicato dal quotidiano The Guardian, siamo oltre le trite argomentazioni del suo atteggiamento in casi estremi. È vero, sarà inevitabilmente un killer del suo passeggero se dovrà scegliere di salvare una scolaresca sulle strisce pedonali, ma una situazione del genere è talmente improbabile, così remota, da divenire marginale. Meno improbabile, è che qualcuno s’insinui nel suo cervello di chip prendendone il controllo. Oggi il terrorismo ha bisogno di uomini imbottiti d’esplosivo o di grandi camion per seminare il panico nelle strade, domani potrebbe spargere scompiglio hackerando i comandi dei veicoli e dirigendoli verso i marciapiedi. Uno sciame assassino. Lo scenario è di nuovo remoto, i sistemi in via di sviluppo sono pensati per essere autosufficienti, per funzionare anche senza nessuna connessione a una rete esterna, a prescindere dal 5G. Ma se è vero che freno e acceleratore sono affidati ai neuroni di un computer, qualsiasi interferenza non può essere esclusa a priori.
Indubitabile invece che l’auto che si guida da sola sarà un «panottico su ruote», per riprendere la felice definizione data dal settimanale The Economist. Come confermava a Panorama in un’intervista esclusiva Raquel Urtasun di Uber, la scienzata che sta scrivendo il cervello dei veicoli senza conducente, per giungere a continue decisioni è necessario che le macchine scorgano e costantemente catturino ogni minimo dettaglio. Pedoni, ciclisti, camion, qualsiasi movimento nei paraggi è utile per determinare se è meglio sterzare, rallentare, procedere diritto. Ma quel flusso d’immagini generato dalle camere di bordo potrebbe essere prelevato e usato dalle autorità per velocizzare le indagini su un crimine, dalle assicurazioni per ricostruire le dinamiche di un incidente, dalle stesse società costruttrici per ragioni di marketing. Tra qualche anno, milioni di occhi elettronici in movimento invaderanno le città. E con la complicità di meccanismi di riconoscimento facciale sempre più evoluti, potranno identificare i soggetti delle loro riprese in un attimo. Forse vivremo in modo più sicuro, ma un nuovo assalto alla privacy muoverà proprio dai laboratori che disegnano la mobilità di domani.
Adesso, inoltre, siamo abituati a possedere una vettura, alcune famiglie ne hanno più di una. Un’abitudine poco proficua: per il 95 per cento del tempo rimane inoperosa, parcheggiata. L’auto che si guida da sola fa leva sul paradigma opposto: la condivisione. Il ride sharing. Secondo un’analisi della banca Ubs, il possesso di quattro ruote da parte dei consumatori standard è destinata adiminuire del 70 per cento rispetto a oggi. Non solo per la convenienza di un robotaxi che verrà a prenderci a domicilio all’orario desiderato per accompagnarci al cinema o in palestra. Ma perché le macchine hi-tech saranno di listino molto care, soprattutto in una prima fase. Potranno essere una prerogativa di ricchi e imprenditori, come lo sono state le Tesla della prima ora. O far parte di flotte di Uber, Waymo (società di Google) e altri gruppi che offriranno passaggi a pagamento. Saranno piccoli gioielli su ruote, infarciti di tecnologia.
Potrebbe dunque succedere che decidano di privilegiare passeggeri che le utilizzano regolarmente, oppure che nelle ore di punta sono disposti a spendere di più. Per accorgersi di quanto non sia remota o fantascientifica quest’ipotesi, basta andare a Los Angeles o San Francisco la mattina o dopo le 17: una corsa di poche decine di dollari può schizzare fino al doppio, al triplo, al quadruplo. Diventa privilegio per pochi. Inoltre, temendo di essere depredata, rubata o danneggiata, una vettura potrebbe evitare zone a rischio, i quartieri più poveri o malfamati, i ghetti delle metropoli, che finirebbero tagliati fuori da questa rivoluzione, rimanendo inchiodati alle dinamiche di trasporto tradizionali. Senza dimenticare l’ultimo elemento, il più evidente. Già oggi le applicazioni che ci scarrozzano ci assegnano un punteggio, un voto frutto del nostro comportamento a bordo, della cortesia e puntualità che dimostriamo. E se sotto una certa soglia, il cervellone deliberasse di non aprirci più lo sportello, finendo per lasciarci a piedi? Se ciò dipendesse anche dalla nostra capacità di spesa, dalla lunghezza del tragitto che facciamo, dalla zona in cui viviamo? Classismo che viaggia su ruote.