Lavoro, professione archeologo
C’è l’archeologo «vecchio stampo» che effettua scavi e trova reperti, come accade nella Villa romana di Bibione; c’è chi segue la realizzazione di un tratto ferroviario interessato da ritrovamenti storici; c’è l’esperto impiegato stabilmente in cantieri pubblici e privati; c’è chi magari scopre preziose testimonianze sottomarine. Con varie specializzazioni, i laureati in antichità sono sempre più richiesti. Strano ma vero, per la prima volta questa professione - che fino a inizio 2020 era a dir poco precaria e veniva snobbata anche dagli atenei - oggi vede un incremento di iscritti e, soprattutto, di richieste nel mercato del lavoro. Così la facoltà di Archeologia di Padova, al primo posto nel «ranking» dell’associazione Education Around anche per prospettive occupazionali, registrava 180 iscritti nell’anno accademico 2020-2021, 185 nel ’21-’22, 217 nel ’22-’23. Più 20 per cento in tre anni.
L’inversione di rotta è dovuta soprattutto a un primo riconoscimento giuridico nel 2014, concretizzatosi però con i decreti attuativi di fine 2019, che hanno definito il ruolo dell’archeologo - e gli sbocchi di impiego - in settori in precedenza poco battuti, dove adesso è invece indispensabile il suo coinvolgimento. E poi c’è la grande spinta del Piano nazionale di ripresa e resilienza, nei vari cantieri aperti in tutto il Paese. Secondo una ricerca della Confederazione italiana archeologi (Cia) nel 2014 ne operavano circa 4.500, dei quali oltre 3.500 erano fuori da enti pubblici e meno di un migliaio avevano un inquadramento all’interno di essi. Oggi, pur non disponendo di dati esatti in assenza di un ordine professionale, la stessa Cia ha effettuato un recentissimo censimento. Che stima almeno 4.200 archeologi, di cui il 30 per cento con un contratto a tempo indeterminato, il 56 per cento è «freelance». Se la platea complessiva è ora inferiore, la professione tuttavia è più stabile rispetto a dieci anni fa.
«Questi specialisti sono importantissimi nei comuni per la pianificazione territoriale» spiega Marcella Giorgio, presidente dell’Associazione nazionale archeologi (Ana), che ne raggruppa circa 500. «Molti di loro fanno parte di squadre di progettazione insieme ad architetti e altri esperti: si occupano dei ritrovamenti, dei reperti, li censiscono e disegnano le carte per definire i rischi precisi nella conservazione». Come si diventa archeologi? «Innanzi tutto c’è la laurea triennale, poi quella magistrale, seguono le specializzazioni, indispensabili, come il dottorato, consigliato a chi voglia intraprendere l’attività accademica o il master biennale» aggiunge la Giorgio. Gli esperti della valorizzazione storico-artistica sono poi sempre più presenti nei tribunali in caso di confisca di beni, nelle controversie legali tra le parti. Ma soprattutto nei cantieri. «Le amministrazioni hanno tanti piccoli progetti legati al Pnrr che richiedono competenze archeologiche».
Dice Ghiselda Pennisi, impegnata da quattro anni con i lavori del raddoppio ferroviario Catania-Palermo, che «la presenza di questi professionisti sul campo permette l’elaborazione di una strategia di intervento, già in fase di progettazione dell’impatto per la nuova linea sul patrimonio archeologico. Il rinvenimento di reperti non risulta più un ostacolo da aggirare, ma un’opportunità di conoscenza, ricerca e, possibilmente, valorizzazione». Migliora, finalmente, anche il reddito. Se nel 2011 solo il 12 per cento degli archeologi guadagnava 20 mila euro l’anno e molti riuscivano a lavorare solo sei mesi su dodici, oggi, secondo Ana, almeno il 50 per cento raggiunge tra i 18 e i 24 mila euro annui, e il 38 per cento supera i tremila al mese, arrivando anche a toccare i 4-5 mila euro. «Parliamo ovviamente di professionisti seri ultra-40 o 50enni, che si aggiornano anche sulle nuove tecnologie, come i Gis per esempio (sistema di informazioni geografico), necessari per analizzare i dati in senso spaziale. La stessa Intelligenza artificiale ci permette ricostruzioni integrative che prima si potevano al massino immaginare».
Sarà solo una «fiammata» o la richiesta di questi esperti del patrimonio continuerà? «La nuova normativa ha cominciato a dare i suoi frutti con la ripresa post Covid» conferma Giorgio. «E prevedo che, anche al di là della scadenza del Pnrr, ci sarà richiesta - e a lungo - per le Grandi opere in programma. Nei musei, inoltre, la competenza dell’archeologo guadagna spazio. Pensiamo al museo Egizio di Torino è diretto da un grande egittologo come Christian Greco, mentre Paolo Giulierini è stato fino al 2023 direttore del Mann di Napoli, Museo archeologico nazionale, dando un contributo fondamentale». Più scettico sulla richiesta di archeologi impegnati nel settore privato (sono la maggioranza) alla fine del Pnrr è Jacopo Bonetto, docente ordinario di Archeologia a Padova. «È vero che molte imprese mi hanno chiamato, quasi disperate, per aver segnalazioni di bravi neolaureati o dottorandi disponibili a seguire lavori di collegamenti ferroviari, strade e sottopassi, a Verona, Padova, Vicenza, Cagliari. Ma dopo il 2026, concluso il Piano, credo che ci sarà un contraccolpo. C’è da sperare dunque che l’edilizia vada a gonfie vele, perché è quella che muove davvero questo mercato».
Altro problema, come si accennava, è la mancanza di un albo professionale. L’archeologo subacqueo, per esempio, non ha un inquadramento legislativo. Eppure Teresa Saitta, di Catania, ha fatto parte di un team «che ha svolto indagini sottomarine dirette e ricognizioni strumentali a bordo di navi oceanografiche in progetti del Pnrr sulla transizione energetica effettuati da Terna». Una ricerca, la sua, che ha individuato - grazie all’utilizzo di Rov (sottomarini a comando remoto) - importanti «giacimenti archeologici in alto fondale» (1.500-1.600 metri di profondità), che potrebbero essere relitti di imbarcazioni antiche e moderne, o anche carichi di preziose anfore. Non avremo tutti Indiana Jones, ma la realtà di chi studia il passato è già entrata nel futuro.
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