Televisione
March 14 2024
Disclaimer: quel che segue non è un tentativo di generalizzare. Neppure di crogiolarsi nell’amarcord. Non cederemo alla tentazione di lagnarci dei bei tempi passati, ricordando con straziante nostalgia l’epoca d’oro delle serie televisive, la rivoluzione gentile di quei nuovi romanzi, il loro fascino magnetico. Ma un «ma» gigantesco incombe all’orizzonte, costringendoci a chiederci se sia davvero così: se la serialità sia davvero peggiorata o se le colpe di ogni fatica televisiva siano dello spettatore, inadatto a navigare il mare immenso dell’offerta (digitale e non) al punto da aver perso il proprio gusto, la propria capacità di scelta.
Quel che ha fatto Netflix sul finire dello scorso anno, rendere pubblici cioè i dati relativi al proprio pubblico, numeri, statistiche, preferenze, sembrerebbe validare la prima delle ipotesi. Gli spettatori, di cui la piattaforma streaming ha profusamente analizzato le abitudini di consumo televisivo, parrebbero più inclini a guardare gli show bruttarelli. Di più. La loro soglia di attenzione sarebbe inversamente proporzionale alla qualità della sceneggiatura televisiva. Prodotti autorialmente migliori per «attention span» da pesci rossi. L’azienda, attraverso un comunicato istituzionale, si è affrettata a precisare che «Il successo su Netflix ha forme e dimensioni diverse». I numeri sarebbero indicatori di una sostanza solo parziale. Fittizia. Ma l’apologia dello spettatore come bidone per monnezza a puntate non è stata sentita. Non da tutti, quanto meno. Ted Sarandos, al vertice dell’azienda, non ha potuto (o saputo) trattenersi dall’ammettere che «Questi sono i dati che utilizziamo per portare avanti la piattaforma». Al diavolo, dunque, i buoni propositi e le nobili idee. Un’offerta costruita su prodotti ben fatti, «belli» addirittura, durerebbe il tempo di dire «Wow». Poi, il pubblico si stuferebbe di quel troppo impegno, delle sue pretese, e migrerebbe altrove, pellegrino in cerca di frontiere più trash. Sarandos s’è inchinato alla legge del mercato, senza vergogna. David Chase, maestro del dire polemico e padre dei Sopranos, è inorridito. «La cosiddetta peak tv», la Golden Age della serialità televisiva, «È stata un contrattempo lungo venticinque anni». Oggi, qualcosa «sta morendo, e va sempre peggio». Chase, la cui creatura perfetta è stata ingurgitata e rimasticata, poi vomitata alle nuove generazioni sotto forma di pillole microbiche in onda su TikTok, ha diviso le colpe fra tecnologie e involuzione della razza umana. «Mentre la specie va avanti, noi ci scopriamo sempre più orientati al multitasking. Il telefono è solo un sintomo, ma chi può davvero concentrarsi? Chi ne ha la possibilità? Tua madre potrebbe essere in fin di vita e tu saresti lì, accanto al suo letto d'ospedale, pronto a rispondere al telefono. Siamo confusi e il pubblico non riesce a mantenere alta la propria concentrazione, dunque non possiamo creare nulla che abbia troppo senso e richieda perciò attenzione», si è sfogato Chase con il Times Uk, spiegando come certe sue idee negli anni siano state cassate perché troppo belle, troppo alte, troppo brillanti.
Il futuro sarebbe fatto di orrori di facile consumo, quelli dell’algoritmo di Boris: sceneggiature un tanto al chilo, blande rivendicazioni Lgbtq+, drammi pseudo-adolescenziali e personaggi costruiti così da rispondere ai criteri di inclusività imposti dai nuovi dittatori di Hollywood. «Sarà sempre peggio», ha detto in un soffio Chase, e d’impulso verrebbe da sottoscrivere ogni sua parola.
Come detto, lungi da noi scrivere qualunque cosa possa ingrassare il fascio malefico nel quale si tende ad accorpare tutta l’erba. Qualche serie televisiva decorosa esiste ancora, seppur sepolta sotto una miriade di input, di proposte che la profilizzazione degli utenti ha reso iper-individuali. Ma è di nuovo immenso il «ma» che incombe all’orizzonte, troppo lunghe le sue dita. Le serie, anche le migliori fra quelle in produzione, hanno smesso di essere «belle». Non c’è più alcuna frenesia, e gli episodi si lasciano correre, uno dopo l’altro, per inerzia, mai per piacere. True Detective 4 non ha nemmeno provato ad eguagliare la straordinaria prima stagione, Matthew McConaughey e il caldo soffocante delle paludi. SuperSex ha illuso e deluso. Gigolò per caso, come Antonia, sono passate con un’alzata di spalle: carucce, ma avremmo potuto farne a meno.
Senza stare ad infierire sui comprovati orrori televisivi, sulle debacle, si potrebbe insinuare che la serialità abbia perso la sua «moltezza»: il friccicorio, l’arte perfetta di tener legato chi guardi, di sedurlo e stupirlo. Niente merita più il ricordo. La memoria è corta. Cosa si è visto? Quando? E i finali? Tabula rasa. La serialità si è trasformata in compitino, eterna pagina bianca sulla quale scrivere con inchiostro simpatico. Le colpe sono di tanti, di tutti. Di chi guarda senza pretendere, di chi dà per soldi, schiavo sordo e cieco dei ricavi. La colpa è degli eccessi, delle troppe piattaforme e della bulimia contemporanea. Meno sarebbe meglio. Ma, forse, per tornare indietro, per perdersi ancora nella rivoluzione di Friends e Dexter, dei Sopranos e de Le regole del delitto perfetto, di Succession, Sherlock e Sex and the city, è ormai tardi. Forse, davvero, non ci resta che piangere.