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April 30 2018
Inclusionesociale come antidoto all'esclusione manicomiale.
Quando Franco Basaglia nel 1973 sfondò con una panchina di ghisa la recinzione del manicomio di Trieste permettendo a Marco Cavallo (la grande statua di cartapesta del cavallo azzurro che rappresentava l'animale adottato dal nosocomio psichiatrico l'anno precedente salvandolo dal macello) e ai 600 "matti" dell'ospedale di vedere la luce del sole ha avviato quella rivoluzione culturale sfociata nella legge 180 del 1978 con la quale veniva abolita l'istituzione del manicomi ridando ai pazienti psichiatrici la dignità di esseri umani.
Prima della 180 era vigente la legge 36 del 1904, per la quale venivano internate nei manicomi le persone "affette per qualunque causa da alienazione mentale". Dopo un periodo di osservazione, i pazienti potevano essere ricoverati definitivamente, perdevano i diritti civili ed erano iscritti nel casellario penale. I manicomi svolgevano, di fatto, un ruolo di controllo sociale dei soggetti deviati, dai malati di mente ai piccoli delinquenti, fino alle prostitute, ai sovversivi o agli omosessuali.
La poetessa Alda Merini che in manicomio passò 8 anni della sua esistenza, dedicò una poesia al medico rivoluzionario che, per primo, non considerò le persone affette da psicosi alla stregua di "pazzi" da tenere lontano dalla società. Secondo Basaglia i malati di mente, sono, appunto, persone malate e un medico ha l'obbligo di curarli.
Non si tratta di "cose" da rinchiudere, da sedare o da legare, ma di persone fragili che hanno bisogno che qualcuno li auti a ristabilire l'ordine delle cose restituendo coraggio a chi ha perso il filo della propria esistenza.
Nei suoi versi Alda Merini scriveva, a proposito di Basaglia:
"Come eravamo innamorati, noi,
laggiù nei manicomi
quando speravamo un giorno
di tornare a fiorire
ma la cosa più inaudita, credi,
è stato quando abbiamo scoperto
che non eravamo mai stati malati".
E' stata questa la granderivoluzione di Basaglia, cambiare la semantica della malattia grazie a un nuovo metodo terapeutico (la cosiddetta Antipsichiatria) che non considerava più il malato un individuo pericoloso, ma un essere del quale devono essere sottolineate, anziché represse, le qualità umane. Il malato, quindi, per guarire, ha bisogno di mettersi in relazione con il mondo esterno dedicandosi al lavoro e ai rapporti umani.
Il problema è che, quando la legge 180 è stata approvata, i "pazzi" si sono trovati nella condizione trovarsi nudi in un mondo che non conoscevano e soprattutto all'interno di una società culturalmente non pronta ad accoglierli.
Franco Rotelli, psichiatra e presidente della Commissione Sanità del Friuli Venezia Giulia, che nel 1980 succedette a Basaglia alla direzione dei servizi di salute mentale triestini, sottolinea come ancora oggi il disagio mentale non venga affrontato in maniera olistica e come i soggetti più deboli vengano curati da un sistema sanitario non in grado di gestire i 2 milioni di persone che ogni anni in Italia si ammalano in maniera grave a livello psichiatrico (tralasciando le migliaia di persone che soffrono di ansia, depressione o disturbi della personalità).
L'unico rapporto sulla salute mentale effettuato nel 2015 dal Ministero della Salute ha mappato una penisola in cui il rapporto tra malati, personale medico e assistenti sociali è insufficiente e troppo spesso ancora oggi si ricorre alla terapia farmacologica e, ancora peggio, alla contenzione meccanica (i pazienti vengono legati ai letti) per ovviare a mancanza di fondi e di energie istituzionali direzionate alla cura della malattia mentale.
Nel nostro Paese la rete dei servizi di cui fanno parte i Centri di Salute Mentale, i centri diurni e le strutture residenziali, conta 3.791 strutture in cui lavorano 29.260 dipendenti (57,7 ogni 100 mila abitanti). Ci sono grandi differenze da regione a regione e in molte zone della penisola non riesce a verificarsi quel trinomio terapeutico ritenuto fondamentale per guarire dalla malattia mentale ovvero offrire al paziente supporto psichiatrico a livello farmacologico, psichico a livello emotivo e sociale per favorirne il reinserimento.
Molto è delegato al volontariato e alle tante associazioni che si prendono carico di queste persone. Alle terapie cognitive comportamentali vengono spesso affiancate attività ludico ricreative che aiutino il paziente a uscire dal proprio universo così ingombrante.
Sul territorio nazionale, ad esempio, esistono decine di compagnie teatrali che si adoperano a utilizzare la finzione scenica come luogo di guarigione, spazio e tempo per trovare il modo perché gli spettri della mente restino in scena ed escano dal quotidiano.
Ci sono, poi, i percorsi nella natura con assistenti sociali e operatori sanitari che portano i malati in montagna, in grotta, in canoa o a dormire sotto le stelle affinché la natura e lo sforzo fisico possano facilitare la presa di coscienza del sé nel contesto naturale, fonte di energia primaria che il paziente psicotico può aver escluso dalla sua sfera di possibilità esperibili.
Importante, poi, è la riappropriazione della sfera lavorativa: insegnare a un malato a cucinare, riparare mobili o costruire oggetti è il passaggio inclusivo più importante verso l'uscita dal buco nero del disagio mentale.
La malattia psichica, del resto, ha diversi gradi e declinazioni e identificarne contorni e caratteristiche è il primo passo per uscirne.
Basaglia, 40 anni fa, lo aveva capito e i suoi discepoli seguendo la cosiddetta Antipsichiatria (la corrente di pensiero di stampo anglosassone cui Basaglia aveva aderito) cercano di lavorare educando le "comunità terapeutiche". Non basta, infatti, curare il malato, ma bisogno operare a livello terapeutico sul contesto sociale nel quale la persona vive che si tratti della famiglia, del posto di lavoro o della scuola.
Insegnare alla società ad approcciare il disagio psichico è l'utopia di Basaglia visto che, al momento, la malattia mentale viene vista ancora con diffidenza e paura perché non viene compresa.
Avere in casa un famigliare senza una gamba o con il cuore che funziona male è duro da accettare, ma viene affrontato con coraggio e dignità dall'intera sfera affettiva del soggetto interessato.
Invece quando un fratello, un figlio o una moglie è malata mentalmente la vergogna la fa ancora da padrona. Perché mia figlia non mangia? Perché mia moglie è depressa? Perché mio fratello ha una personalità multipla con scatti d'ira e abissi di sofferenza? Il nero del cervello di chi soffre viene vissuto con impotenza e fa paura perché attrae verso un vortice di inconscio dalla struttura poliforme.
Si dice che la depressione è la malattia più democratica al mondo perché può colpire tutti, giovani e vecchi, uomini e donne, ricchi o poveri e la causa di quel clic che spegne i colori sul mondo è talmente personale che è difficile da metabolizzare a livello sociale.
La chiusura dei manicomi, 40 anni fa, è stata la prima pedina di un domino socio- culturale non ancora finito che sposta le tessere, le responsabilità e le possibili soluzioni tra le istituzioni, la famiglia, gli assistenti sociali e i malati ma finché la terapia non verrà considerata a livello olistico e inclusiva di tutte le sfere dell'essere umano il malato mentale sarà sempre considerato un folle, un pazzo o nel migliore dei casi un poeta.