La politica europea sulla concorrenza va rivista

Tra poche settimane si svolgeranno le elezioni per il nuovo Parlamento europeo. Sulla base delle indicazioni che emergeranno dagli elettori si inizierà auspicabilmente una fase di policy review, con rianalisi e rivisitazione delle numerosissime normative che sono state prodotte negli ultimi anni dalle istituzioni europee. Normative che alcuni ritengono stiano potenzialmente minando alla base la competitività industriale ed economica del nostro continente.Tra quelle che auspicabilmente andrebbero rivisitate c’è la disciplina che riguarda gli aiuti di Stato.

Dai tempi dello scontro tra Microsoft e Mario Monti, Commissario europeo alla Concorrenza, fino alle recenti iniziative di Margrethe Vestager contro le Big Tech americane, la normativa sulla concorrenza è stato uno dei principali strumenti – se non forse purtroppo l’unico – utilizzati dalle Istituzioni europee per asserire anche a livello globale il proprio hard power.D’altra parte, il mercato europeo è ancora uno dei più importanti al mondo. Nessuna impresa globale può ancora, per fortuna, permettersi di esserne esclusa.Bisogna però chiedersi se il modo concreto con cui tale potere viene esercitato abbia fatto e stia facendo gli interessi dell’Europa, o rischi invece di danneggiarla.

I bersagli preferiti, o perlomeno quelli più visibili, della Direzione Generale Concorrenza della Commissione europea sono stati o le Big Tech americane – ad un certo punto Donald Trump, quando era Presidente e con i toni che gli sono caratteristici, definì addirittura la Commissaria Vestager come "la persona che più odia gli Stati Uniti nel mondo" – oppure gli stessi Stati europei, frequentemente accusati di stare operando aiuti di Stato illegittimi.Tutto questo quando oggi, da più parti, si segnala che il rischio strategico per l’Europa forse non viene dagli Stati Uniti, ma dalla Cina e dalla sua potenziale sovracapacità produttiva che rischia di scaricarsi sul nostro continente, soprattutto se, come sembra, gli Stati Uniti alzeranno barriere commerciali.

Per quanto riguarda la normativa sugli aiuti di Stato, ad oggi la stessa viene usata per limitare aiuti e sovvenzioni all’economia. Ad esempio la normativa GBER – General Block Exemption Regulation – impone vincoli e burocrazia agli interventi che gli Stati mettono in campo per aiutare non solo le grandi imprese ma anche quelle medie e piccole. Lo scopo è quello di tutelare il mercato interno, ma a volte il risultato è quello di creare un campo non equo per le imprese europee rispetto a quelle non-europee.

La normativa interna sugli aiuti di Stato in materia fiscale, poi, è basata su un principio di non discriminazione il quale, pur sembrando in prima battuta condivisibile, produce effetti distorsivi tra i vari Paesi europei. Lo stesso comportamento, ad esempio il 15% di imposta sui redditi di impresa, può essere considerata aiuto di Stato in un Paese, ma essere assolutamente legittimo in un altro, creando una lotta iniqua all’interno della stessa Unione.

L’Europa, se vuole evitare distorsioni, dovrebbe ridisegnare la propria normativa sugli aiuti di Stato adottando standard minimi comuni ammissibili in tutti gli Stati membri e reinterpretando il proprio ruolo come difensore non solo della concorrenza interna, ma anche di quella che proviene dagli altri continenti.

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