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Leonardo Sciascia a Palermo (GettyImages).
Costume

Sciascia, uno scrittore contro i quaquaraquà

Cento anni fa nasceva l'intellettuale che ha capito e raccontato i mali questo Paese, partendo dalla sua Sicilia. Una figura
di coscienza civile attualissima, sempre più rara in Italia.

Il grande pubblico lo ha conosciuto quando era già negli «anta» e, per la verità, ne dimostrava persino qualcuno di più. Abbastanza stempiato, fianchi arrotondati e, dovendo dividere il mondo fra alti e bassi, con un posto assicurato fra i bassi. Leonardo Sciascia era un personaggio di quella normalità, capace di trasformarsi in eccezione. Era nato a Racalmuto, nell'agrigentino e, se una malattia terribile che l'aveva colpito ai reni non l'avesse portato via, l'8 gennaio compirebbe cent'anni. Adesso, la sua città conta 8.000 abitanti e si presenta con un tessuto urbano moderno. Quella di allora sembrava periferia del mondo, con strade in terra battuta e casupole fatte più con legno che con mattoni.

Il cascinale di Sciascia stava ancor più fuori mano. Così lontano (fisicamente) da sembrare distante (culturalmente). Eppure, quei luoghi appartati sembrerebbero ritagliati sul suo carattere: le trazzere attraverso i campi scavate da buche anche profonde, gli ulivi imponenti anche se leggermente inclinati sul fianco e il vento che ribalta le erbe secche. L'acqua e la luce le aveva portate lui perché, prima, era campagna e basta. Insomma: un posto isolato dove è facile rimanere con i propri pensieri.

Lì, Leonardo Sciascia che era un solitario aveva la possibilità di coltivare la sua solitudine. Non guidava l'automobile e non guardava la televisione. Spesso andava lui a fare la spesa e a lui il pastore portava le ricotte fresche di giornata. Gli bastava la presenza silenziosa della moglie Maria, i libri che divorava con avidità, la visita (rara) di qualche amico. Tutto con una semplicità così «naturale» da sembrare eccentrica.

Diceva che, alle 11, in famiglia, erano già tutti a dormire e - sempre parole sue - assicurava che l'ultimo pensiero lo dedicava alla morte. Per aggiungere che avrebbe desiderato affrontarla da sveglio come per essere testimone di un fatto di cronaca. Quando l'Università di Messina lo segnalò perché gli attribuissero una laurea honoris causa, ha rifiutato con una giustificazione fra il distaccato e l'ironico. «Perché una laurea, già maestro sugnu». Nel 1935 aveva conseguito il diploma magistrale e la sua prima occupazione era stata quella di insegnare ai ragazzotti come «leggere, scrivere e far di conto».

Il successo come scrittore e romanziere è venuto dopo e anche abbastanza lentamente. Del resto, i suoi ritmi non prevedevano né strappi né accelerazioni. I libri nascevano nella pacatezza di quei silenzi e di quel raccoglimento. La sigaretta, perennemente accesa fra le dita della mano sinistra, la biro in quelle della destra e un quadernetto sul tavolino per appuntarsi i pensieri da sviluppare poi nelle pagine da inviare all'editore.

Le sue trame sono lineari. La scrittura essenziale ma gravida di sapori, snella e senza forzature. I toni, pur nella denuncia delle trame oscure della sua terra, restano pacati e, quasi, quieti. A mettere a nudo mafia e sistemi mafiosi, i volti e le maschere degli uomini di potere è stato lui, fra i primi, proprio con quella sua prosa di aggettivi nervosi e di espressioni misurate.

In quelle righe, ci stanno i dolori e le ombre di una terra straordinaria, maltrattata da chi insiste a ingannarla. Immaginare classifiche è inappropriato ma, certo, Sciascia è stato fra quelli che - comprendendola - hanno raccontato la Sicilia al resto dell'Italia. A cominciare da una divisione non convenzionale delle classi sociali. Ci sono uomini (pochi), mezzi uomini (un po' di più ma sempre a ranghi ridotti), ominicchi (che già si propongono in numero consistente) per finire con i ruffiani e i quaquaraquà (a rappresentare, insieme, la stragrande maggioranza della popolazione).

Nel 1961 Il giorno della civetta lo ha consegnato all'orizzonte degli scrittori con una marcia in più. Un romanzo, quel suo lavoro, costruito su personaggi e circostanze di fantasia e, tuttavia, inseriti in un contesto drammaticamente reale dove sembrava che i mafiosi, ereditandolo dagli antichi feudatari, avessero conservato il diritto di vita e di morte.

L'intreccio della trama del racconto trovava corrispondenze impressionanti con la politica e la politica giudiziaria attuali. «Nessuna inchiesta progredisce. Scoppia lo scandalo che, qualche volta, produce un gran chiasso. Ma poi il meccanismo investigativo s'inceppa per poi fermarsi del tutto al punto da dimenticarsene, in attesa di indignarsi per quello successivo...». Denuncia senza mezzi termini e senza compromessi che, tuttavia, non gli ha impedito di guardare anche l'altra faccia della medaglia.

Una volta scoperto il malaffare, in troppi avevano vestito i panni dei censori per i quali la lotta alla criminalità organizzata era diventato un mestiere. «I professionisti dell'antimafia» è stato il titolo di un suo articolo sul Corriere della Sera nel quale evidenziava che la tutela della legalità, insieme alle buone intenzioni, stava diventando un abito troppo comodo da indossare.
Anche per fare carriera. Lui, per la verità, quell'espressione così come riassunta, non l'ha mai utilizzata né nel testo dell'articolo né in dichiarazioni successive e, tuttavia, il senso autentico del suo ragionamento era stato rispettato.

C'era un'ansia dell'umano in Sciascia che lo metteva nelle condizioni di scrutare il buio, nel fondo, per scovare le miserie che lo abitano. Da A ciascuno il suo a Todo modo per arrivare a Il cavaliere e la morte fino ai saggi La scomparsa di Majorana e L'affaire Moro. Facile, insistendo su tematiche spinose, diventare oggetto di polemiche con accuse anche sguaiate dalle quali si è difeso con il garbo del gentiluomo di campagna. «Non pretendo che mi si dia ragione. Mi basta la convinzione di aver detto cose in tutta onestà di coscienza».

Sciascia non aveva né il carattere né il timbro dell'uomo che sentenzia, pretendendo di conservarsi il diritto dell'ultima parola.
Diceva che il siciliano – di carattere – era un insicuro e lui - siciliano a 18 carati - è sempre stato dominato dal dubbio. Aveva avuto qualche approccio con l'allora partito comunista, Nella lista, sotto il simbolo con la falce e martello, era stato eletto al consiglio comunale di Palermo. Ma, dopo qualche tempo di adesione, aveva abbandonato i compagni. «Non ho niente contro il Pci» ha dichiarato, quasi per giustificarsi «tranne il metodo con cui governano in certi Paesi. Sarei con loro ma voglio conservare la mia libertà e quella degli altri».

Più convinta l'adesione successiva al partito radicale di Marco Pannella. Ha occupato un seggio, a Montecitorio, dal 1979 al 1983 e poi a Bruxelles e Strasburgo - deputato europeo - per pochi mesi nel 1979, prima di andarsene anche da lì. Infine, la simpatia per il partito socialista. Evidente che qualche decisione, con qualche presa di posizione, si trasformassero automaticamente in contrasti. Talvolta scelte e parole che determinavano la scelta apparivano poco condivisibili e, per qualcuno, forse, inaccettabili.
Straordinariamente rispettosa, nella sincerità, una corona di fiori che l'ha accompagnato al cimitero con una fascia viola e la scritta: «Malgrado tutto».

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