Sulla Tassa di Successione Letta prende un altro schiaffone

Da oggi Enrico Letta non può più stare sereno. Chiamarla falsa partenza non basta più. Il segretario non solo non è partito, ma sta addirittura indietreggiando.

Prima l'insistenza esagerata sui diritti civili, in testa il ddl Zan, che in un clima come quello di oggi, in cui si chiedono sommamente diritti sociali, è sembrata a molti sproporzionata e fuori luogo. Oggi arriva lo scivolone supremo: vogliono alzare le tasse. Di questi tempi. Con quello che abbiamo passato. Vogliono alzarle.

Nei dettagli, Letta propone di tassare i patrimoni lasciati in eredità sopra il milione di euro per girarne una percentuale ai giovani. Con questa idea originalissima il segretario del Pd si è guadagnato la tranvata a stretto giro di Mario Draghi: "Non è il momento di prendere soldi, ma di darli", ha risposto il premier. Forse è la prima volta dall'insediamento a Palazzo Chigi che Draghi ha lasciato seriamente da parte il suo stile diplomatico: e lo ha fatto per bastonare il partito democratico, per giunta su una proposta economica.

Ma la bocciatura era scontata. Soprattutto nel post pandemia, la gente chiede investimenti, rilancio dei consumi e della crescita: al massimo un taglio delle imposte, non certo un aumento. Inasprire la tassa di successione risponde a una concezione socialista arcaica dell'economia: quella per cui i soldi dati in eredità sarebbero denari sporchi che perpetuano le diseguaglianze sociali, anziché soldi guadagnati onestamente su cui si è già pagato le imposte.

Questa concezione sostiene che basta infilare le mani nelle tasche della gente per risolvere tutti i problemi. Basta cioè redistribuire la torta per essere tutti sazi. Peccato che la torta non lievita se non c'è benzina nell'economia: un piccolo particolare che continua a sfuggire a molti. Il rischio è sempre il solito: a punire i cosiddetti ricchi per dare il contentino ai poveri si rischia di impoverire tutti. Per dirla con le parole di Margaret Thatcher, c'è una parte di sinistra che pur di vedere i ricchi meno ricchi accetta di vedere i poveri più poveri. Solo non immaginavamo, e non immaginiamo tutt'ora, che Enrico Letta ne facesse parte. Anzi, proprio sul piano economico ci aspettavamo da lui un progetto decisamente più dettagliato, ragionevole e organico di uno spot cotto e mangiato: "Togliamo ai milionari per dare ai giovani".

Sta di fatto che il segretario Pd, forse nel tentativo di rafforzare l'identità di un partito in crisi, sta spolverando un armamentario vetero-sinistro che non sembra pagare né alla sua immagine né tantomeno nei sondaggi, dal momento che Fratelli d'Italia sta ormai tallonando il suo partito in termini di consensi. In più c'è la tanto sbandierata alleanza con il M5S che nei fatti, cioè nella scelta dei candidati sindaci alle prossime elezioni, non c'è stata (si veda Milano, Roma, Torino). Se ci aggiungiamo la bacchettata pubblica di Mario Draghi, le cose per questa segreteria si mettono male.

Per questo dicevamo che Letta non può stare sereno: tra poco si vota. Se disgraziatamente le elezioni comunali nelle grandi città, con la carta claudicante di Gualtieri a Roma, dovessero essere deludenti, nel partito in tanti cominceranno a chiedere il suo scalpo prima del tempo. Col risultato che Letta, dopo aver ponderato molto prima di lasciare Parigi, adesso corre il rischio di tornarvi in anticipo. E stavolta non potrà incolpare Renzi, se qualcosa andrà storto: ma solo sé stesso.

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