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September 11 2018
Mentre il ministro degli esteri italiano Enzo Moavero Milanesi svolgeva la sua funzione di ambasciatore delle istanze italiane presso la Libia incontrando il generale Khalifa Haftar a Bengasi, a Tripoli andava in scena un attacco terroristico al quartier generale della compagnia petrolifera di stato (NOC, National Oil Corporation), condotto da un commando di sei uomini di origine africana.
Tre di loro si sono fatti esplodere all’interno della sede, mentre gli altri hanno preso in ostaggio i dipendenti per alcune ore. Le forze di sicurezza hanno quindi circondato la sede e bloccato ogni via di fuga, prima di dare il via all’incursione armata.
Forse, il vero obiettivo del commando di terroristi era Mustafa Sanalla, il presidente della compagnia, che però è stato tratto in salvo per tempo ed è così rimasto incolume.
Questo episodio, che avrebbe causato la morte di tutti gli attentatori e di due guardie di sicurezza oltre ad aver provocato una dozzina di feriti, è lo specchio di come Tripoli e Bengasi vivano così differentemente questi giorni di tribolazione politico-sociale. Mentre cioè in Cirenaica si disegna il futuro politico del Paese, la Tripolitania è preda di se stessa, schiava delle proprie insicurezze e con la capitale piagata da continui scontri armati, in un tutti contro tutti che non depone certo in favore della stabilità né delle istituzioni deputate al suo mantenimento, rappresentate dall’ormai sempre più isolato e logorato premier Fayez Al Serraj, il cui ufficio tra l’altro si trova poco più di un centinaio di metri dal luogo dell’attentato.
In particolare, colpire la compagnia petrolifera di Stato - l’economia della Libia dipende dagli idrocarburi per il 90% - ha uno scopo preciso: minacciare l’esecutivo di ritorsioni in vista di accordi economici non condivisi con i clan locali, e mettere sotto pressione gli osservatori internazionali.
Non a caso, come già lo scorso maggio - quando un attentato distrusse il comitato elettorale tripolino facendo 16 vittime - il governo ha subito scaricato sullo Stato Islamico la responsabilità dell’attacco, sebbene non vi sia ancora stata alcuna rivendicazione. Segno che non si vuol guardare in faccia la realtà, che vede le milizie padrone del terreno.
Intanto, il governo italiano è finalmente addivenuto a più miti consigli e ha inviato il ministro Moavero Milanesi a Bengasi per fare buon viso a cattivo gioco e stringere la mano al generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica che solo due giorni fa ha minacciato nuovamente di marciare su Tripoli, nel caso in cui le elezioni di dicembre dovessero naufragare o rivelarsi una farsa.
Obiettivo ufficiale era una convergenza preliminare sui punti stabiliti dall’Onu per il futuro del Paese, molti dei quali saranno discussi durante la conferenza internazionale che si terrà il prossimo novembre in Sicilia, probabilmente tra il 10 e il 22.
Per il momento è stata identificata la cittadina di Sciacca per ospitare il summit, mentre manca ancora una data certa. Appuntamento osteggiato da più parti (Francia compresa), ma che avrà un probabile impatto sulle relazioni tra la comunità internazionale e la Libia e sarà rivelatore delle vere intenzioni dei contendenti.
L’intesa formale raggiunta tra Bengasi e Roma - "è stato un incontro coridale e positivo" ha riferito laconica la Farnesina - dice molto del ruolo accresciuto del generale, che non solo vanta alleanze importanti come quella del Cairo, di Parigi e persino di Mosca, ma ha dalla sua un esercito disciplinato e stipendiato, capace di muovere guerra in men che non si dica.
Anche se la forza dei regolari di Haftar è sopravvalutata tanto quanto il loro numero (le cifre ufficiali parlano di 50 mila uomini), ciò nonostante il modello istituzionale da lui proposto sembra convincere sempre più buona parte del popolo libico e anche una serie di milizie della Tripolitania, che si dicono pronte a giurare fedeltà al generale e a disciplinarsi fino al punto di deporre le armi per confluire nelle schiere di quanti già ricevono uno stipendio regolare.
Anche alcuni appartenenti alla Forza di Deterrenza libica, la milizia facente funzioni di polizia a Tripoli, sarebbero pronti a un accordo col generale. Ma il rischio per molti è dichiararsi pro Haftar troppo presto, complici le voci non si sa quanto fondate sul precario stato di salute del generale stesso.
Dopo il cessate il fuoco tra le milizie rivali di Tripoli, raggiunto il 4 settembre in seguito alla battaglia che ha tenuto col fiato sospeso la capitale per giorni, adesso il passo successivo è creare i presupposti perché il piano dell’UNSMIL (UN Support Mission in Libya) regga fino a novembre, quando dalla Sicilia arriveranno alcune risposte.
Per quanto riguarda l’Italia, il premier tripolino Fayez Al Serraj dovrà resistere fino ad allora, se si vuole che Roma mantenga il peso negoziale necessario a non restare isolata di fronte all’avanzare del generale Haftar, il cui peso cresce parallelamente alle ingerenze francesi in Libia.
Il compito non è semplice, ma il governo italiano è spalle al muro: ha sostenuto Serraj anche quando la scelta si è rivelata inopportuna, e adesso non può abbandonarlo come fece illo tempore con il colonnello Gheddafi. Ma un progressivo distacco nel dopo-Sciacca non potrà che essere salutare allo scopo finale, cioè mantenere un canale privilegiato con quegli interlocutori - quali che siano - che in un domani non troppo lontano saranno a capo della Libia o a quel che ne rimane.
Grandi sfide attendono dunque il governo italiano: la questione migranti, le forniture energetiche, le relazioni con il nordafrica, il ruolo nel Mediterraneo e l’importanza geopolitica del nostro Paese dipendono quasi esclusivamente da come Roma gestirà il dossier Libia. L’abilità diplomatica (e non soltanto) di pacificare l’area in tumulto, ci dirà presto se l’Italia è all’altezza delle competizioni del futuro, o se è solo capace di stringere accordi temporanei con interlocutori inaffidabili.