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January 19 2016
Per Lookout news
Faiez Serraj, primo ministro del governo di unità nazionale libico, ha annunciato i nomi del suo esecutivo. La squadra, composta da 32 ministri e 4 vicepremier, è stata votata da 7 dei 9 membri del Consiglio presidenziale. Hanno votato contro Ali Gatrani e Omar Al-Aswad. I responsabili dei dicasteri più influenti sono Al-Aref al-Khuja all’Interno, Marwan Ali agli Esteri, Al Taher Mohamed Sarkaz alle Finanze, Khalifa Rajab Abdul Sadeq al Petrolio, Abdul Motalib Boufarwa all’Economia e Mahdi Al-Barghati alla Difesa. Quest’ultimo, stando a quanto riportato da Libya Observer e Libya Herald, è una figura vicina a Khalifa Haftar, al servizio del quale ha combattuto nell’ambito dell’“Operazione Dignità” lanciata in Cirenaica contro i gruppi jihadisti nel 2014. Un collegamento che dimostra come Haftar, dopo aver spinto a votare contro il nuovo governo Ali Gatrani, uno dei vicepremier del Consiglio presidenziale, sia riuscito a ottenere la presenza di un suo uomo di fiducia in un ministero nevralgico come quello della Difesa.
Il fragile governo di unità nazionale in Libia
Centrato l’obiettivo di ottenere da Serraj la nomina di un nuovo governo, la comunità internazionale dovrà adesso attendere l’esito del voto della Camera dei Rappresentanti di Tobruk che dovrebbe avvenire entro i prossimi dieci giorni. Il responsabile della missione ONU in Libia, Martin Kobler, ha esortato i membri del parlamento (l’unico ormai in funzione considerato che quello di Tripoli non riveste più alcune funzione) ad approvare l’esecutivo. Ottenere questo risultato non sarà però semplice. Per l’approvazione serve infatti il voto favorevole dei due terzi dell’Assemblea. Ma il parlamento di Tobruk nelle sedute degli ultimi mesi ha sempre avuto difficoltà a raggiungere il quorum per altre votazioni, e adesso ci vorrà uno sforzo diplomatico non indifferente per strapparle una votazione in tempi così stretti.
Le incognite di un intervento militare in Libia
Al netto del passo in avanti registrato oggi, la situazione in Libia resta dunque complessa. Sul futuro del suo fragile governo di Serraj peseranno le scelte su cui decideranno di puntare quei Paesi che negli ultimi giorni, seppur con toni e tempistiche differenti, si sono detti pronti a compiere un passo in avanti in direzione di un intervento militare per difendere l’insediamento dell’esecutivo a Tripoli e arginare l’avanzata dello Stato Islamico. Con un dispiegamento di circa 5.000 uomini, l’Italia dovrebbe guidare il blocco dei Paesi dell’UE, seguira da Regno Unito (1.000 soldati), Germania (300) e Francia. Ma ancora non c’è nulla di ufficiale.
Un articolo pubblicato il 18 gennaio sul New York Times mette in evidenza una serie di ostacoli contro cui sono destinate a sbattere in particolare le forze speciali americane nel momento in cui decideranno di entrare in azione. Secondo il giornale americano, una volta atterrati in Libia gli USA potrebbero trovarsi nella stessa situazione vissuta lo scorso 14 dicembre nella base aerea di Al Watiya, al confine con la Tunisia, quando una squadra Marsoc (il gruppo operazioni speciali dei Marines americani) in abiti civili fu costretto ad abbandonare immediatamente l’area dai un gruppo di miliziani di Zintan.
L’episodio, oltre a causare un forte imbarazzo al Pentagono, ha dimostrato quanto sarà complicato per gli USA riuscire a trovare in Libia forze alleate su cui fare affidamento per affrontare sul terreno ISIS e gli altri gruppi jihadisti. Nel 2012 i rapporti stretti dall’intelligence americana con personalità influenti e milizie locali di Bengasi non salvarono dalla morte l’ambasciatore Christopher Stevens. E i deludenti risultati ottenuti negli ultimi anni in Siria, con i tentativi di addestrare ribelli moderati, non lasciano ben sperare sul fatto che qualcosa di meglio possa essere ottenuto in Libia.
Nel 2015 diverse squadre di forze speciali americane, di stanza in vari Stati africani, si sono spostate in Libia per raccogliere informazioni sulle centinaia di milizie armate presenti nel Paese, conoscere i territori in cui operano, valutare le loro capacità di combattimento e, soprattutto, capire se ci possano essere margini per scendere a compromessi e avviare qualche forma di collaborazione. Ma le ricerche effettuate finora non hanno prodotto gli effetti sperati. Lo stesso generale Haftar, in passato in rapporti strettissimi con la CIA durante il regime di Gheddafi, viene considerato dall’intelligence americana un uomo di cui è meglio non fidarsi.
Anche la strada che porta a Zintan è difficilmente praticabile. Le sue milizie nei mesi scorsi si sono dimostrate in grado di tenere testa agli islamisti di Tripoli. Ma i fatti avvenuti nella base area di Al Watiya, occasione in cui i vertici di Zintan hanno perso il controllo di una delle loro milizie (con ogni probabilità volutamente), non depongono a loro favore.
Il New York Times focalizza l’obiettivo anche su Misurata, città costiera situata a poche ore di macchina da Sirte, roccaforte dello Stato Islamico in Libia, e in rotta con Tobruk e Haftar. Anche la posizione di Misurata resta però difficile da decifrare tanto per gli americani quanto per Regno Unito, Francia e Italia, che qui hanno tentato in questi mesi di stringere contatti militari come confermato da Abdulrahman Swehli, un personaggio politico influente in questa città.
Fino a poche settimane fa gli USA pensavano di poter contare su un canale privilegiato per consolidare i rapporti con Misurata, avendo addestrato fino al 2013 nel Camp 27 vicino a Tripoli una milizia locale, nota come Battaglione 22. Ma la milizia ha tradito gli USA, non presentandosi alla base di Al Watiya per accogliere il commando americano, e lasciando così senza punti di riferimento certi anche in questa città. Se i presupposti sono questi, un nuovo intervento degli Stati Uniti in Libia rischia di naufragare sul nascere e di rimandare in scena un remake della fallimentare campagna militare avviata nel 2011 per far cadere Gheddafi.