Tripoli
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Libia: reportage da Tripoli, città preda di milizie e interessi stranieri

Tripoli, la "sposa del mare", non è raggiungibile fino a tarda notte da Tunisi. Solo alle quattro del mattino giunge un charter, che segna undici ore di ritardo. Nessuno si scompone, trasporti e infrastrutture sono un altro dei gravi problemi della Libia, e tutti sembrano accettarlo con rassegnazione.

Ci imbarchiamo insieme a un gruppo di libici giunti in Tunisia con figli o parenti malati. Molti tornano in patria sfiniti e delusi, la Tunisia non può pagare per le prestazioni mediche che richiedono, così supplicano noi italiani per ottenere un visto, "Visa card, s’il vous plaît". Arriviamo poco dopo l’alba al Corinthia hotel, dove nell’ottobre 2013 l’allora premier Ali Zeidan fu rapito da una milizia che avversava quel governo; e dove nel gennaio 2015 si consumò un attentato terroristico che fece nove morti, per lo più stranieri. L’hotel è deserto.

L'attentato dell'Isis al Comitato elettorale

Dai gloriosi tempi, quando i suoi 26 piani erano colmi di turisti, oggi ne restano aperti appena sei. Nessuno si palesa nella hall. Regna una quiete assoluta anche sul lungomare, dove si contano una manciata di auto della polizia. "Non è normale" sostiene chi frequenta la città da sempre. Infatti, due ore dopo, le agenzie battono la notizia di un attacco kamikaze consumato al Comitato elettorale di Tripoli, nella zona ovest della capitale, a poche centinaia di metri da dove ci troviamo. Due uomini si sono fatti saltare in aria, mentre altri complici hanno dato fuoco alla sede e ingaggiato un conflitto a fuoco. Alla fine, saranno 16 i morti. 

È un messaggio eloquente a chi crede che il prossimo autunno si possano svolgere le prime vere elezioni del post Gheddafi. L’Isis rivendica a stretto giro: il Wilayat Tarabulus, la provincia dello Stato Islamico a Tripoli, s’intesta la responsabilità. I kamikaze provenivano da Sebha, l’oasi nel deserto del Fezzan, tristemente nota per il "mercato degli schiavi", ovvero il luogo di raccolta dei migranti che dal Centrafrica tentano di raggiungere l’Europa (simili gabbie a cielo aperto esistono anche a Tripoli).

La scena dell'attacco suicida al Comitato elettorale di Tripoli, Libia, 2 maggio 2018. Ansa/EPA/STR

Un’alta colonna di fumo nera si staglia sopra la città e subito dopo il boato, come fuoriuscite da un formicaio, appaiono da ogni dove le prime milizie, pesantemente armate, che si mostrano alla popolazione per lanciare messaggi rassicuranti. "Stiamo provvedendo alla vostra sicurezza". Sono le Katibe, ovvero i clan familistici che controllano ciascuno il proprio quartiere, scese in strada più che altro per farsi notare. Da quel momento, vengono ripristinati numerosi check point e i controlli andranno avanti per tutta la settimana.

Tra malumore pre-elettorale e tiepido ottimismo

I servizi segreti italiani erano stati avvisati che un nucleo dell’Isis si stava adoperando da settimane per penetrare nella capitale, ma finora non ci erano riusciti. Era dal 2016, con la caduta di Sirte per mano delle milizie di Misurata (che controllano le zone chiave della capitale) che non si registrava la loro presenza qui. Il morale perciò è basso, specie in vista del voto. Il colpo subìto è forte, e si temono nuove azioni.

"Altro che Isis, c’è la Fratellanza Musulmana dietro" grida qualcuno. Mentre mimetiche blu e grigie dirottano il traffico in tilt sul lungomare e quelle nere difendono gli edifici strategici, l’ambasciata italiana si chiude a riccio. C’è anche il ministro degli interni italiano, Marco Minniti, che partirà il giorno stesso per Roma seguito dall’ambasciatore Giuseppe Perrone. L’ordine è tassativo: non uscire. Noi però abbiamo un appuntamento all’Hotel Al Waddan, dov’è in corso una due giorni d’incontri organizzata dalla Camera di Commercio italo-libica, la prima coraggiosa missione imprenditoriale italiana in Libia dal 2011. "Tornare in queste condizioni è un piccolo choc" confessa chi lavora con Tripoli da quarant’anni.

Il premier libico Fayez Al Serraj visita il luogo dell'attentato, a Tripoli, in cui hanno perso la vita 16 persone. 2 maggio 2018.Ansa/EPA/STR

A parte ciò, l’atmosfera generale è positiva e durante l’apertura dei lavori si respira un tiepido ottimismo, condiviso dalle controparti locali: rappresentanti di oil & gas, ma anche di energia solare e servizi per l’industria. Una tempesta di sabbia incombe da ore sulla città, contribuendo a rendere questa realtà opaca e sfumata. Le poche navi che presidiano il porto, segno di un settore che langue, spariscono all’orizzonte, confondendosi con la linea che separa cielo e mare. Ci spostiamo dall’hotel al centro, un florilegio di palazzi e costruzioni rimaste a metà, vittime della fine della stabilità economica. Non uno straniero in giro. Solo una manciata di negozi aperti e numerosi money transfer, che raccontano di una città diventata lavanderia di contanti. Dollari ed euro, soprattutto. Mentre Bab al-Aziziya, il fu quartier generale dell’ex rais, è ancora oggi un gigantesco recinto di spazzatura e macerie.

La debolezza di Al Serraj e la forza di Haftar

Il giorno seguente alla sede del forum incontriamo il primo ministro Fayez Al Serraj, il debole "rais di Tripoli", che ci appare nervoso e insicuro. Specie se paragonato al Generale Khalifa Haftar il quale, forte del comando di un esercito regolare, da tempo contende a Serraj la leadership del Paese.

Haftar era stato dato per morto in aprile dopo un intervento d’urgenza a Parigi, ma fonti tripoline confermano che invece è tornato in Libia in salute e "prepara qualcosa di grosso". Il 15 maggio sfilerà a Bengasi in parata militare e c’è chi legge questo come il preludio a una marcia su Tripoli, dove la popolazione è pronta ad accoglierlo senza combattere.

I rapporti contraddittori Libia-Italia

Serraj sa di non essere amato dal popolo, nemmeno nella capitale. E lo ha capito anche l’ambasciata italiana, che pare averlo già scaricato. Dopo aver pronunciato poche parole, non a caso, Serraj sfugge all’intervista con Panorama perché adirato con il nostro ambasciatore (sic!), reo di non essersi presentato all’appuntamento. "Hanno mandato soltanto un consigliere di second’ordine ad accoglierlo. Questo è un affronto" dicono i suoi, prima di lasciare il forum in tutta fretta. Persino il fratello del premier, Nouri, si lamenta: "Non riesco neppure a ottenere un visto per l’Italia, come molti altri imprenditori libici che hanno aziende e interessi nel vostro paese" è la sua amara constatazione. Chiediamo conferma a un responsabile dell’ambasciata, che come risposta ci offre un biglietto da visita: "La colpa è del fatto che siamo sottodimensionati. Ma possono chiamarmi, gli faccio avere il visto in due giorni" dice con malcelata irritazione, poco prima di scomparire.

Eppure, solo poco prima Serraj, dopo aver osservato un minuto di silenzio per le vittime dell’attentato, ci diceva: "Ringrazio il vostro paese per il supporto che state dando al problema dell’immigrazione clandestina, la cui soluzione più che il terrorismo può riattivare settori cruciali come la pesca e in generale potrà risollevare l’economia costiera, offrendo di riflesso uno sviluppo economico anche al sud del paese. I nostri due paesi hanno chiuso una pagina storica negativa e per il futuro auspicano di poter camminare insieme, stringendo una forte collaborazione per rilanciare gli interessi comuni, come si fa tra due amici. Abbiamo scelto di procedere su questa strada e il forum ne è la dimostrazione più positiva".

Lasciamo la Libia con la certezza che, da quando Gheddafi è scomparso, tutto è rimasto come cristallizzato nel tempo. Il popolo ha voglia di normalità ma è preda del sottosviluppo, delle milizie, degli interessi stranieri. E sembra solo aspettare che il generale Haftar, o chi per lui, lo liberi da questa condizione. 


(Articolo pubblicato sul n° 21 di Panorama, in edicola dal 10 maggio 2018, con il titolo "Tre giorni a Tripoli")


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