Lifestyle
September 22 2014
Un portiere campione del mondo ha davvero tante storie da raccontare. Per questo arriva in libreria Dura solo un attimo, la gloria, autobiografia del grande Dino Zoff, edita da Mondadori nella collezione Strade Blu.
Pubblichiamo qui le tre pagine di premessa che aprono il libro .
Ho sempre giocato per me stesso. Per ambizione e per narcisismo. Andavo in campo e m’inebriava il gusto di sapermi lì, isolato in quella porta, da solo. Poi un giorno è finita. E, quando è finita, mi sono accorto che c’era almeno un altro motivo per cui mi piaceva quello che facevo: il profumo dell’erba.
Solo i portieri sanno che questa non è una frase retorica. Perché solo i portieri sanno cosa significa davvero il profumo dell’erba. Gli altri calciatori non ne hanno idea. Perché loro sull’erba corrono, al massimo ogni tanto scivolano oppure, oggi, si rotolano un po’.
Ma il portiere no. Il portiere ci lavora con l’erba. E praticamente ogni suo gesto, ogni suo intervento finisce sempre allo stesso modo, con il naso dentro l’erba. E così, piano piano, quell’odore vegetale tanto intenso, pulito e infantile si stratifica sopra tutte le altre sensazioni, le modifica geneticamente; l’eccitazione dell’adrenalina, le nevrosi della paura, gli spasimi di dolore avranno per me sempre quell’odore. E allo stesso modo l’erba vorrà sempre dire eccitazione, paura e dolore.
Adesso gioco a golf. Roma è una città che sembra fatta apposta. E quindi mi capita spesso di ripensare a quel mio mondo, a quei due pali tra i quali mi piaceva isolarmi per ricordarmi chi ero, per mostrarmi a me stesso. Allora pensavo che sarebbe dovuto durare per sempre, che sarebbe stato bello non smettere mai. A volte, addirittura, che non poteva finire. Ma erano balle. La vita è una parabola, segue uno schema fisso come il giorno e la notte. E quando arriva il tramonto, non è che puoi stare lì a lamentarti, non puoi pensare che ti mancherà il sole. Meglio, molto meglio prepararti a passare una bella serata.
Per questo non ho mai più voluto mettere i guanti, nemmeno per scherzo. Ricordo che a Torino, con alcuni amici, avevamo creato una squadretta. Avevo appena smesso di fare il calciatore. Organizzavamo delle partite, di tanto in tanto, e io non giocavo mai da portiere. Né gli altri, per fortuna, me lo chiedevano. Giocavo centromediano, «centrale» come si dice adesso. E me la cavavo anche. Ne avevo
visti parecchi... Avevo giocato fino a 41 anni. Basta. In porta non ci potevo stare più. Non potevo profanare il ruolo. In porta, o si gioca come si deve o non si gioca.
Dopo avere smesso, ho fatto solo due partite da non professionista. Non sono riuscito a evitarlo. Una era per un anniversario della Fifa a Zurigo, c’erano diverse squadre da tutto il mondo. E l’altra era una partita Italia-Germania, sette anni dopo, come ricorrenza dell’82. Me lo aveva chiesto Blatter. Me la sono cavata ancora.
Da allora non ho mai più giocato. Per l’amor di Dio, mettersi lì con i dolorini e gli acciacchi. Misurare la propria vecchiaia, il decadimento fisico, l’inadeguatezza. Non c’è alcun bisogno di porsi davanti allo specchio in certe circostanze.
Ho fatto il portiere. L’ho fatto alla grande. Sono stato un uomo fortunato. Basta così. Meglio concentrarsi su quello che non si è potuto fare prima. Sognare, per esempio. Per uno che ha realizzato da subito tutti i propri sogni, sognare è un lusso. Mi è sempre piaciuto, sin da ragazzino. Forse è così per tutti, non lo so. Sicuramente lo fu per me. All’inizio volevo essere un pilota, ma servono troppi soldi per quello sport. E poi ci volevano le attitudini. E le mie attitudini mi portavano altrove, fra due pali. Sempre lì. Era qualcosa più di una predisposizione. Era un modo di vivere. A quattro anni mi buttavo dappertutto a prendere la palla. Quello era il mio destino.
E adesso che il mio destino si è compiuto, restano i sogni. Anzi, i ricordi. Che sono i sogni dei grandi.